Sull’accesso agli atti esecutivi dell’appalto da parte di un’impresa receduta dall’RTI aggiudicatario

A cura di Sandro Mento

Sandro Mento 8 Luglio 2024
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Recesso dall’RTI aggiudicatario – impresa receduta – corrispettivo stabilito recesso – onere versamento impresa RTI – accesso agli atti – contabilità e atti di esecuzione appalto – artt. 22 e 24 l. n. 241/1990 – artt. 53 d.lgs. n. 50/2016 – interesse diretto, concreto, attuale – sussiste  
TAR Puglia – Bari, sez. I, 10 giugno 2024, n. 735

L’accesso ai documenti amministrativi costituisce “principio generale dell’attività amministrativa”, al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’azione amministrativa (art. 22, comma 2 legge n. 241/90). Sono pertanto accessibili, in linea di principio, “tutti i documenti amministrativi” (art. 22, comma 3) che siano detenuti da una pubblica amministrazione e che concernano attività di pubblico interesse, “indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale” (art. 22, comma 1, lett. d).
 
Il diritto di accesso presuppone che colui il quale lo esercita sia portatore di “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (art. 22, comma 1, lett. b), e che l’accesso non sia preordinato ad esercitare “un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (art. 24, comma 3).
 
La prevalente giurisprudenza amministrativa ammette l’accesso documentale, ricorrendone le condizioni previste dagli artt. 22 ss. legge n. 241/1990, anche per gli atti della fase esecutiva di un contratto pubblico (si cfr. Cons. Stato, ad. plen., 2 aprile 2020, n. 10), compresa la contabilità dell’appalto.
 
Va accolta la richiesta di accesso alla contabilità dell’appalto, necessaria per difendere le ragioni della ricorrente nel contenzioso instauratosi dopo il suo recesso dall’RTI aggiudicatario, per verificare l’esistenza delle condizioni cui è subordinata la corresponsione del corrispettivo stabilito per il recesso.

Indice

Il caso di specie

La sentenza del TAR Puglia si occupa di due profili interessanti nell’ambito della disciplina della contrattualistica pubblica. Da un lato, la decisione, sebbene in modo “indiretto” (poiché il profilo non era oggetto di contestazione giudiziale), prende atto della possibilità – per un’impresa aderente a un RTI aggiudicatario di un appalto pubblico – di recedere dal raggruppamento (e quindi dal contratto con la P.A.) sulla base di un mero accordo (interno) con gli altri membri della compagine, tenuti a versare (a fronte del recesso) un corrispettivo all’impresa receduta.
L’altro aspetto degno di nota riguarda, invece, il diritto dell’impresa recedente (che lamenta il mancato rispetto dell’accordo intervenuto a corredo del recesso) all’ostensione (nei confronti della committenza) dei documenti della fase esecutiva dell’appalto, al fine di accertare il verificarsi delle condizioni cui era subordinata la corresponsione del compenso convenuto (per il recesso).
Questi i fatti.
Nel 2023, un’impresa – pendente l’esecuzione di un contratto per la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori di raddoppio di una linea ferroviaria – presentava a R.F.I. un’istanza di accesso agli atti afferenti la contabilità dell’appalto. In particolare, venivano richiesti gli stati di avanzamento lavori, le fatture emesse dall’appaltatore e i certificati di pagamento.
L’azienda premetteva di aver fatto parte dell’RTI aggiudicatario della commessa, ma di aver esercitato in seguito (ad affidamento avvenuto) il recesso dalla compagine. Il recesso veniva regolato da un accordo (interno) con le altre parti del raggruppamento. In particolare, una delle imprese si impegnava a corrispondere (all’impresa recedente) un determinato importo, da pagare in rate successive. Quanto al 10%, all’atto della sottoscrizione dell’accordo stesso e, nel prosieguo, all’incasso dell’anticipazione contrattuale versata dalla committenza e al pagamento dei successivi SAL.
La società, nell’istanza di accesso, sosteneva, inoltre, che la propria controparte contrattuale non aveva onorato i patti intercorsi, non avendo pagato né la seconda né la terza rata del contratto, neanche a seguito di diffida.
Quindi, formulava istanza di accesso agli atti “esecutivi” dell’appalto (detenuti da R.F.I.) per aver contezza della documentazione sopra indicata (versamento anticipazione contrattuale, pagamento SAL ecc.), al fine di tutelare la propria posizione giuridica nel contenzioso instaurato a seguito degli asseriti inadempimenti della propria controparte.
La committenza, con nota del dicembre 2023, respingeva la richiesta di accesso agli atti, assumendo l’inapplicabilità, alla fattispecie, della normativa in materia di accesso documentale (segnatamente, art. 53 d.lgs. n. 50/2016), l’estraneità di R.F.I. agli accordi intervenuti tra le parti e il carattere esplorativo dell’istanza.
Il diniego, in particolare, si appuntava sui seguenti argomenti: – la non ostensibilità degli atti esecutivi dell’appalto e, soprattutto, della contabilità (ritenuti non riconducibili alle fattispecie indicate dall’art. 22 l. n. 241/1990); – l’estraneità della stazione appaltante alla situazione giuridica sottostante l’accesso, la quale avrebbe riguardato un rapporto negoziale tra terzi senza il suo coinvolgimento.
Comunicato il provvedimento, questo veniva impugnato con ricorso ex art. 116 C.P.A., nel quale l’impresa deduceva la violazione degli artt. 22 e 24 l. n. 241/1990 e dell’art. 53 d.lgs. n. 50/2016, nonché la contrarietà dell’atto ai principi di buona andamento, imparzialità, correttezza, trasparenza dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.) ed eccesso di potere.
Secondo la ricorrente, il rifiuto dell’accesso ai documenti, in presenza di un interesse diretto, concreto e attuale (determinato dalla necessità della tutela in giudizio dell’impresa istante), sarebbe stato illegittimo. L’amministrazione detentrice degli atti, purché direttamente riferibili alla salvaguardia della posizione giuridica personale e concreta del privato, non avrebbe potuto negare la loro ostensione, se non per motivate esigenze previste espressamente dalla legge.
La circostanza relativa alla ritenuta estraneità della committenza al rapporto negoziale intercorrente tra le parti (e cioè il contratto regolante il recesso dall’RTI) e il fatto che l’istante non rivestiva più la qualifica di membro della compagine esecutiva non avrebbero potuto ostacolare l’esercizio del diritto di accesso. Infatti, secondo l’impresa, non esisterebbe alcuna preclusione normativa in grado di impedire a un operatore di recedere dall’RTI per ragioni organizzative, né rileverebbe il recesso dal vincolo associativo e dal contratto quale fattore di assunta carenza di legittimazione ex art. 22 ss. l. n. 241/1990. Questi profili, naturalmente, prescinderebbero dalla pretesa fatta valere nei confronti dell’RTI, il quale dovrebbe corrispondere un’equa indennità per le attività svolte dall’operatore fino al recesso e per le spese sostenute.
Si costituiva in giudizio R.F.I. resistendo al ricorso.
Per la stazione appaltante, gli atti richiesti non risultavano inquadrabili nella categoria degli atti amministrativi (e neppure in quella degli atti endoprocedimentali), con conseguente inapplicabilità, da parte dell’azienda, della disciplina dell’accesso documentale.
La ricorrente, inoltre, non avrebbe avuto la qualifica di concorrente “in gara”, con interesse a conoscere l’esistenza di vicende suscettibili di condurre alla risoluzione (per inadempimento) del contratto con l’affidatario.
Infine, la domanda di ostensione avrebbe avuto finalità “esplorative”, poiché volta ad acclarare la presenza di un inadempimento rispetto a un accordo stipulato tra terzi (esulante dalla procedura di gara), rispetto al quale la committenza era rimasta del tutto estranea.   

La decisione del TAR

All’esito del ricorso, il TAR ha giudicato fondate le pretese della ricorrente.
In primo luogo, il tribunale ha ricordato che l’accesso ai documenti amministrativi costituisce “principio generale dell’attività amministrativa”, al fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica e di assicurare l’imparzialità e la trasparenza dell’azione della P.A. (art. 22 comma 2, l. n. 241/90).
Risultano, pertanto, accessibili “tutti i documenti amministrativi” (art. 22, comma 3) che siano detenuti da una pubblica amministrazione e che concernano attività di pubblico interesse: “…indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale” (art. 22, comma 1, lett. d).
Il diritto di accesso presuppone che colui il quale lo esercita sia portatore di: “…un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso” (art. 22, comma 1, lett. b) e che questo non sia preordinato ad esercitare: “…un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni” (art. 24, comma 3).
Ciò premesso, il TAR ha evidenziato che, nella fattispecie, R.F.I. risultava l’unica detentrice della documentazione richiesta dall’impresa, necessaria per difendere le sue ragioni nel contenzioso instaurato dopo la “fuoriuscita” dall’RTI (regolata da un accordo intervenuto con una delle imprese componenti l’operatore economico); dunque, la stazione appaltante era il solo soggetto in grado di soddisfare la pretesa dell’istante e, conseguentemente, l’unica ad essere gravata dall’onere di ostendere gli atti utili (e necessari) a far valere i diritti reclamati anche in sede giudiziale.
Al riguardo, è risultato incontestato il fatto per cui, in origine, la stazione appaltante avesse aggiudicato l’appalto all’RTI, comprendente anche l’azienda ricorrente. Successivamente, quest’ultima avrebbe deciso di “uscire” dal raggruppamento e dal contratto di appalto, stipulando un apposito accordo in cui sarebbe stata individuata pure la relativa contropartita economica.
Per il TAR, tali elementi: “…confermano l’esistenza di un interesse concreto e attuale [dell’impresa] alla acquisizione dei documenti, che trova la propria base nel contratto d’appalto concluso a monte con R.F.I. e, quindi, nel provvedimento di aggiudicazione emesso dalla stessa società”. Gli atti della contabilità gestita da R.F.I. appaiono, quindi: “…necessari per tutelare i diritti vantati [dall’azienda], il che di per sé è sufficiente per disattendere le eccezioni sollevate al riguardo dalla medesima R.F.I.”.
La documentazione richiesta con l’accesso, necessaria a far valere (in giudizio) le obbligazioni rimaste asseritamente inadempiute, si rivelerebbe strumentale al soddisfacimento del credito, e, quindi, alla cura e alla difesa degli interessi giuridici della ricorrente.
In questo senso, ha proseguito il TAR, a nulla rileverebbe la circostanza: “…che la fase esecutiva del rapporto negoziale sia tendenzialmente disciplinata da disposizioni privatistiche, poiché permane sempre l’interesse pubblicistico alla realizzazione dell’opera o del servizio. In altri termini, sotto il profilo degli interessi pubblici sottesi alla fase dell’esecuzione, occorre fare riferimento al principio di trasparenza e di concorrenza che, sia pure menzionati nel Codice dei contratti pubblici solo con riferimento alla fase pubblicistica dell’affidamento degli appalti e delle concessioni, costituiscono principi generali il cui rispetto nella fase di evidenza pubblica incide, di riflesso, anche sulla fase esecutiva che deve rispettare e rispecchiare l’esito della gara”.
Gli atti della contabilità dell’appalto, a tal proposito, avrebbero natura e consistenza  di documenti amministrativi. Infatti, ai sensi dell’art. 22 l. n. 241/1990: “Per documento amministrativo si intende ogni rappresentazione in qualsiasi formato e su qualsiasi supporto del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.
Secondo il giudice, la sopravvenuta estraneità dell’impresa al contratto (dato il recesso esercitato) non giustificherebbe l’impossibilità per l’azienda di rivolgersi alla P.A., che – quale detentore della documentazione amministrativa – avrebbe l’onere di fornire gli atti richiesti per la difesa dei diritti dell’impresa, tanto più essendo, detti documenti, inerenti l’appalto che l’operatore ha inteso verificare per valutarne:“…l’incidenza sulla propria posizione”.
Anche l’eccepita estraneità di R.F.I. al rapporto negoziale intercorrente tra le parti (con le relative obbligazioni rimaste, secondo la ricorrente, inadempiute) non sarebbe fondata.
In tal senso: “…vale osservare […] che secondo l’art. 23 l. n. 241/1990: sono soggetti legittimati passivi dell’accesso «le Pubbliche Amministrazioni, le aziende autonome speciali, gli enti pubblici e i gestori di pubblici servizi»”. Per tale ragione, ha ritenuto il Collegio, in conformità al costante orientamento della giurisprudenza amministrativa: “…il «soggetto» che detiene gli atti richiesti dal ricorrente, da individuare come legittimato passivo del giudizio ai sensi dell’art. 25, comma 2, della legge 241/90, è il soggetto al quale la richiesta di accesso va inoltrata in quanto «amministrazione che ha formato il documento o che lo detiene stabilmente». Nel caso di specie R.F.I. quale gestore del servizio pubblico affidato e soggetto autore/detentore della documentazione richiesta soggiace agli obblighi di ostensione connessi a tale posizione”.
Né, infine, secondo il TAR, l’istanza di accesso potrebbe ritenersi “esplorativa” o avente finalità di controllo generalizzato dell’amministrazione in violazione dell’art. 24, comma 3 l. n. 241/1990: parte ricorrente avrebbe dedotto la titolarità di un originario rapporto contrattuale con R.F.I. (sia pure nel contesto di un RTI), illustrando, allo stesso tempo, l’eventualità che gli atti richiesti possano contenere informazioni utili alla propria difesa nel contesto dei giudizi pendenti. Così, la prospettazione dell’azienda: “…deve essere considerata […] del tutto ragionevole e plausibile, e tanto basta a dimostrare la necessità dell’accesso, nel senso indicato dall’art. 24, comma 7 l. n. 241/1990”.
In definitiva, nell’accogliere il ricorso, il Collegio ha considerato sufficienti gli elementi offerti dalla deducente al fine di individuare la titolarità di una posizione giuridica: “a) differenziata, in quanto diversa da quella del comune cittadino a conoscere genericamente l’attività svolta dai pubblici poteri; b) giuridicamente tutelata, in quanto preordinata all’esercizio, in altro giudizio già pendente, del diritto di difesa della ricorrente, costituzionalmente tutelato; c) collegata alle informazioni richieste, atteso il rapporto contrattuale che lega l’istante a R.F.I.

Brevi profili ricostruttivi

Come accennato nel primo paragrafo, sono due le questioni di interesse poste dalla sentenza. Una è relativa alla presa d’atto (quanto meno in via “indiretta”) della possibilità per le imprese temporaneamente riunite in RTI di poter recedere dal raggruppamento (nel caso di specie, successivamente all’affidamento del contratto) dietro impegno di una o più delle altre imprese raggruppate al versamento di un corrispettivo (quindi, senza la previa dimostrazione di stringenti ragioni organizzative).
L’altra questione, invece, riguarda il tema dell’ostensibilità, in favore di chi non è (o non è più) parte dell’appalto, di atti e documenti relativi alla fase esecutiva del rapporto, soprattutto qualora le informazioni cui si intende accedere non risultino funzionali a far valere un inadempimento dell’affidatario nei confronti della stazione appaltante, ma servano (in altre sedi) a far valere il mancato rispetto di “patti” (in questo caso interni all’RTI) in ordine ai quali il committente è estraneo.
Sul primo punto, con riferimento alla disciplina del Codice previgente (applicabile alla fattispecie ratione temporis), la possibilità di recesso dall’RTI (era) espressamente prevista al comma 19 dell’art. 48 (i commi 17 e 18, invece, regolavano l’ipotesi della prosecuzione del rapporto di appalto con altro operatore costituito mandatario o subentrante in caso di fallimento o sopravvenienza di altre procedure concorsuali, morte, interdizione, inabilitazione, perdita dei requisiti ex art. 80 Codice 2016 o nei casi previsti dalla normativa antimafia di cui al d.lgs. n. 159/2011; sui commi in questione, si v. Cons. Stato, ad. plen., 27 maggio 2021, n. 10).
La norma, in particolare, stabiliva: “È ammesso il recesso di una o più imprese raggruppate, anche qualora il raggruppamento si riduca ad un unico soggetto, esclusivamente per esigenze organizzative del raggruppamento e sempre che le imprese rimanenti abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire. In ogni caso la modifica soggettiva di cui al primo periodo non è ammessa se finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara”.
Il comma 19 ter dell’art. 48, cit., inoltre, stabiliva che: “Le previsioni di cui ai commi 17, 18 e 19 trovano applicazione anche laddove le modifiche soggettive ivi contemplate si verifichino in fase di gara”, con ciò espressamente comprendendo pure le modifiche (soggettive) – comprensive dell’ipotesi del recesso – intervenute in fase di esecuzione del contratto, ad affidamento quindi già avvenuto (sul tema, si v. Cons. Stato, sez. V, 27 agosto 2020, n. 5255).
Tendenzialmente, dunque, nel d.lgs. n. 50/2016 (vedremo poi la normativa attuale) era ammessa la possibilità di un mutamento “interno” della composizione dell’RTI, in quanto il divieto di modificazione soggettiva (stabilito, come accennato, nei commi 17 e 18 dell’art. 48, cit.) non aveva sempre e comunque l’obiettivo di precludere la fuoriuscita di un operatore economico. Il rigore della disciplina, infatti, doveva essere temperato in ragione dello scopo perseguito dalle legge, che era quello di consentire alla P.A. di verificare costantemente il possesso dei requisiti degli imprenditori partecipanti alla gara (o affidatari del contratto), impedendo “sul nascere” modificazioni (con aggiunte o sostituzioni di imprenditori all’originario impianto plurisoggettivo) potenzialmente in grado di eludere i confini del Codice.
Tale essendo la funzione della norma, è evidente come siano state riconosciute tendenzialmente elusive del dettato normativo le modifiche soggettive destinate (appunto) ad “aggiungere” imprese alla compagine già esistente ovvero a “sostituire” alcuni operatori partecipanti alla gara (o affidatari del contratto) (si v., in tal senso, T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 31 marzo 2022, n. 2195; secondo T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 17 gennaio 2024, n. 452, l’evento che conduce alla sostituzione, ammessa nei limiti anzidetti, deve essere portato a conoscenza della stazione appaltante, laddove questa non ne abbia già avuto o acquisito notizia, per consentirle, secondo un principio di c.d. “sostituibilità procedimentalizzata”, a tutela della trasparenza e della concorrenza, di assegnare all’operatore economico un congruo termine per la riorganizzazione del proprio assetto interno, tale da poter riprendere correttamente, e rapidamente, la propria partecipazione alla gara o la prosecuzione del rapporto contrattuale).
Viceversa, le ipotesi di recesso di una delle imprese dal raggruppamento (o da altro operatore plurisoggettivo come un consorzio) – con conseguente riduzione della compagine – non sono state oggetto di peculiare attenzione. In tal caso, le finalità sopra indicate risultano (in genere) non frustrate, poiché l’amministrazione, al momento del mutamento soggettivo, ha già provveduto a verificare i requisiti di moralità e capacità delle imprese restanti, sicché i rischi che il divieto di modifica soggettiva mira a impedire non potrebbero concretamente materializzarsi (sul tema, per approfondimenti, si rinvia a Cons. Stato, ad. plen., 4 maggio 2012, n. 8)
L’ammissibilità del recesso (senza sostituzione), dunque, è risultato in pratica non penalizzante per la P.A. né per gli operatori economici, le cui dinamiche, ieri come oggi, imponevano (e impongono) spesso modificazioni che prescindono dal singolo affidamento, mutamenti che non possono però precluderne la partecipazione alle gare (o la prosecuzione nell’esecuzione di un appalto) se effettivamente nessun nocumento ne deriva per la stazione appaltante (quindi, a patto che la modifica della compagine in senso riduttivo avvenga per esigenze proprie del raggruppamento o del consorzio, non già per evitare la sanzione dell’esclusione dalla procedura di gara o la risoluzione del rapporto per difetto dei requisiti in capo a un componente; secondo T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 28 giugno 2021, n. 7692, nell’ambito di una procedura ad evidenza pubblica, la sola ipotesi di recesso da un raggruppamento ammessa dall’art. 48, commi 19 e 19 ter d.lgs. n. 50/2016 sarebbe quella giustificata da obiettive esigenze organizzative del raggruppamento medesimo, tra le quali non sarebbe ricompreso “l’apprezzamento discrezionale di inaffidabilità da parte della stazione appaltante”).
Nel Codice del 2023, il tema è stato regolato in modo simile al d.lgs. n. 50/2016. In particolare, l’art. 68, comma 17 stabilisce che: “È ammesso il recesso di una o più imprese raggruppate, sempre che le imprese rimanenti abbiano i requisiti di qualificazione adeguati ai lavori o servizi o forniture ancora da eseguire. Il recesso è ammesso anche se il raggruppamento si riduce a un unico soggetto”. Il successivo comma 18 prosegue chiarendo che: “Le previsioni di cui al comma 17 trovano applicazione anche con riferimento ai soggetti di cui all’articolo 65, comma 2, lettere b), c), d) e f) [cioè i consorzi fra società cooperative di produzione e lavoro, i consorzi tra imprese artigiane, i consorzi stabili ecc.]”.
In generale, fermo il principio di immodificabilità soggettiva del concorrente (fatti salvi i casi previsti dalla legge: si v. Cons. Stato, ad. plen., 20 luglio 2015, n. 8) i commi 17 e 18 devono essere letti in combinato disposto con il secondo periodo del comma 15 (dell’art. 68, cit.), il quale stabilisce che: “…la modifica dei consorzi e dei raggruppamenti è ammissibile nei termini indicati dall’articolo 97 e dal comma 17 del presente articolo”. Fermo il comma 17 (su cui si è appena detto), l’art. 97 stabilisce che in presenza di cause automatiche e non di esclusione (o del venir meno di un requisito di qualificazione) a carico di un partecipante a un operatore plurisoggettivo, non si fa luogo all’esclusione se – in esito al procedimento previsto dalla norma – il raggruppamento (o altro operatore “composto”) dimostri di aver estromesso o sostituito quel partecipante con altro soggetto munito dei necessari requisiti, fatta salva l’immodificabilità sostanziale dell’offerta presentata.  
Tornando ora al comma 17, scompare, come si sarà notato, il riferimento alla possibilità del recesso: “…esclusivamente per esigenze organizzative”. La nuova norma non fa alcun richiamo a tale aspetto, evidentemente lasciando all’autonomia dell’operatore-imprenditore il compito di individuare i casi (concreti) in conseguenza dei quali intervenire “in diminuzione” sulla componente soggettiva. Il senso della nuova disposizione è ben espresso dalla Relazione al Codice (pag. 109), in cui si evidenzia che nel comma indicato è riprodotta: “…la disposizione sul recesso del partecipante al raggruppamento e al consorzio contenuta nel comma 19 dell’art. 48 del decreto legislativo n. 50 del 2016, consentendo il recesso ad nutum (anche se il raggruppamento si riduce a un unico soggetto) di una o più imprese raggruppate, sempre che le imprese rimanenti abbiano i requisiti di qualificazione”.
Quindi, come si può notare, dal lato della committenza dovrà essere consentito il recesso ad nutum (secondo la volontà di colui che recede) invece che per (sole) esigenze organizzative. Altro è il tema dell’esercizio del recesso all’interno dell’organismo pluripartecipato, le cui regole “d’ingaggio” potrebbero pure non ammettere tale possibilità (ma questo è aspetto che interessa solo incidentalmente la S.A.).
Non c’è più neppure l’ultimo periodo del comma 19 dell’art. 48 Codice 2016. Manca la precisazione per cui: “In ogni caso la modifica soggettiva di cui al primo periodo non è ammessa se finalizzata ad eludere la mancanza di un requisito di partecipazione alla gara”.
Ora, francamente, questo aspetto non sembra di particolare rilievo, anche perché è sostrato “ontologico” ai principi del Codice e dato ormai pacifico in giurisprudenza che ogni consentita modificazione alla compagine dell’operatore plurisoggettivo (quale essa sia in virtù dell’art. 65 Codice) non possa costituire una “scappatoia” per impedire l’esclusione dalla gara (per carenza dei requisiti di partecipazione in capo a una o più imprese) o la risoluzione del contratto di appalto per grave inadempimento dell’appaltatore (fattispecie oggi disciplinata dall’art. 122 d.lgs. n. 36/2023).
Di conseguenza, la carenza di tale “precisazione” certamente non abilita gli operatori ad assumere condotte destinate a violare, innanzitutto, quel patto di fiducia reciproca (stazione appaltante-operatore economico) che costituisce il fil rouge che tiene insieme (con gli altri principi generali indicati agli artt. 1-11 d.lgs. n. 36/2023) il tessuto connettivo dell’attuale Codice degli appalti.
Lasciando da parte il Codice del 2016, alla luce della disciplina vigente, che ha “scollegato” dalle esigenze della P.A. la fattispecie del comma 17 dell’art. 68, cit. (che resta solo fatto interno all’RTI), appare condivisibile la “presa d’atto” del TAR sull’avvenuto recesso dell’impresa dietro pagamento di un corrispettivo pattuito con il raggruppamento.
In futuro, l’unica “preoccupazione” della stazione appaltante dovrà essere quella di verificare se, in concreto, il recesso possa celare altro, se cioè dietro la “fuoriuscita” di un operatore – soprattutto in caso di recesso ad nutum – non si manifesti, invece, il tentativo di “rimediare” a patologie (dell’operatore economico) in fase di gara o emerse nel corso dell’esecuzione.
Altro aspetto preso in considerazione dalla decisione riguarda l’esercizio del diritto di accesso (documentale) agli atti esecutivi di un appalto da parte di chi, in concreto, non è parte (o non è più parte) della gara o del contratto affidato e, tuttavia, richieda (alla stazione appaltante) l’ostensione di atti e documenti per far valere, in sede giurisdizionale o in altra prevista dalla legge, l’inadempimento di accordi tra privati cui è estranea la committenza.
Nella fattispecie, il TAR ha accolto il ricorso dell’impresa (consentendo così l’accesso) argomentando in modo puntuale sui profili di ritenuta esistenza dell’interesse diretto, concreto e attuale (art. 22 l. n. 241/1990).
Il giudice, in particolare, basandosi su alcuni “indici” (originaria partecipazione dell’azienda  – quale mandataria di un RTI – alla gara; aggiudicazione dell’appalto al raggruppamento comprendente pure l’azienda poi receduta; sottoscrizione di un accordo economico, relativo al recesso, con gli altri componenti dell’RTI; asserito inadempimento dell’accordo e necessità di conoscere, da parte della società receduta, gli atti esecutivi dell’appalto condizionanti le obbligazioni dedotte nel contratto), ha riconosciuto l’esistenza dei presupposti legittimanti la richiesta di ostensione.
Il fondamento (l’origine) di tali condizioni è stato rinvenuto dal giudice: “…nel contratto d’appalto concluso a monte con R.F.I. e, quindi, nel provvedimento di aggiudicazione emesso dalla stessa società”. Parte committente, inoltre, è stata riconosciuta quale “unica detentrice” della documentazione amministrativa e, conseguentemente, unica responsabile dell’ostensione di atti ritenuti, dalla richiedente accesso, mezzi utili e necessari per la difesa dei propri diritti in sede giudiziale.
Tanto premesso, in disparte la questione della tipologia di atti ai quali si è inteso accedere (gli atti esecutivi dell’appalto e la contabilità rientrano nella definizione ex art. 22, comma 1, lett. d l. n. 241/1990), ciò che nella sentenza è interessante è l’uso dello strumento per finalità non direttamente legate alla “tutela” (quale che sia) nei confronti dell’amministrazione, ma per reperire dati e informazioni da utilizzare in altri procedimenti (per esempio, un giudizio civile) pertinenti rapporti tra privati.
Il tema, dalla giurisprudenza, è stato indagato soprattutto guardando alla (possibile) sovrapposizione tra accesso agli atti (principalmente a carattere difensivo) e mezzi di ricerca della prova nel rito civile (quelli istruttori d’ufficio previsti negli artt. 210, 211 e 213 c.p.c.).
Secondo una ricostruzione, la disciplina dell’accesso documentale non potrebbe divenire strumento, o meglio “scorciatoia”, per dare modo alle parti di precostituirsi mezzi di prova al di fuori dei canali individuati dalla legge.
La possibilità di acquisire extra iudicium i documenti amministrativi, dei quali una delle parti potrebbe avvalersi in giudizio, si tradurrebbe, inevitabilmente, in una forma di “aggiramento” delle norme che governano l’acquisizione delle prove e costituirebbe un vulnus al diritto di difesa dell’altra parte, la quale, invece che difendersi nella sede tipica prevista dall’ordinamento processuale, si troverebbe a dover esporre le proprie ragioni non già dinanzi a un giudice, bensì alla pubblica amministrazione, in qualità di soggetto controinteressato.
Quindi, secondo questa tesi, lo strumento dell’accesso dovrebbe pur sempre operare nei rapporti tra amministrazione e privati e non potrebbe essere utilizzato per surrogare i mezzi probatori civilistici (né per supplire al mancato assolvimento dell’onere della prova a carico della parte istante).
L’accesso, pertanto, non potrebbe concernere atti e documenti: “…inerenti a un rapporto jure privatorum” di cui si domandasse l’ostensione per: “…precostituire prove documentali da far valere davanti al giudice civile” (TAR Molise, sez. I, 21 maggio 2018, n. 296 e giurisprudenza ivi citata).
La questione, in tempi non troppo lontani, è stata risolta dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, la quale – in due articolate decisioni (Cons. Stato, ad. plen., 25 settembre 2020, nn. 19 e 20) – ha ricondotto a sistema una (supposta) “zona grigia” tra disciplina del procedimento amministrativo e regole dell’istruzione probatoria del rito civile (in particolare, quelle che disciplinano i poteri acquisitivi del giudice).
Il Collegio, innanzitutto, ha ricordato che l’accesso è il principio regolatore dell’attività amministrativa; quanto all’oggetto, soddisfa finalità di pubblico interesse; quanto alla funzione, favorisce la partecipazione e assicura l’imparzialità e la trasparenza, attribuendo così “sostanza” a una serie di valori costituzionali.
La l. n. 241/1990, attraverso la codificazione dell’accesso agli atti amministrativi, ha però prodotto pure un altro effetto: ha notevolmente arricchito, conducendolo a uno stadio giuridicamente più avanzato, il “paniere” di strumenti processuali, di ricerca e di documentazione della prova, contenuti nel codice di rito civile, secondo il meccanismo, già sperimentato dal legislatore, del sistema a tutele c.d. crescenti.
Se è vero, sostiene il Consiglio di Stato, che nel giudizio civile l’azione volta a far valere la pretesa sostanziale è autonoma rispetto a quella utile a reperire la documentazione per sostenere le allegazioni difensive, allora gli strumenti probatori del rito civile e l’accesso documentale possono dialogare senza correre il pericolo di sovrapporsi gli uni all’altro (e viceversa).
Ciò anche grazie a una lettura unitaria e integratrice tra le singole discipline, nonché costituzionalmente orientata a garanzia dell’effettività del diritto alla tutela giurisdizionale, da intendere in senso ampio e non ristretta al solo momento processuale. Pertanto, il rapporto tra accesso documentale difensivo e istituti processualcivilistici destinati a regolare l’acquisizione probatoria: “…non può che essere ricostruito in termini di complementarietà delle forme di tutela” (Cons. Stato, ad. plen., n. 19/2020, cit.).
Ne deriva, quindi, che l’acquisizione, al di fuori del giudizio, dei documenti di cui la parte intende avvalersi in un procedimento civile (sia futuro sia già pendente), in base alle norme che ne consentano l’acquisizione (come la disciplina dell’accesso documentale per gli atti amministrativi), è, secondo il giudice: “…attività di ricerca della prova del tutto fisiologica, non solo consentita dall’ordinamento, ma oggetto di un preciso onere a carico della parte a ciò legittimata”.
Viceversa, secondo l’Adunanza Plenaria, l’esclusione dell’ammissibilità dell’accesso documentale difensivo, in via generale e astratta, giustificata sulla (assunta) prevalenza della disciplina del codice di rito pertinente l’esibizione istruttoria (e sui poteri d’ufficio del giudice a questo fine) è operazione ermeneutica che finirebbe per incidere in modo pregiudizievole sull’effettività del diritto alla tutela giurisdizionale e sul diritto alla prova.
Così, la disciplina degli strumenti processualcivilistici di esibizione istruttoria (articoli 210, 211 e 213 c.p.c.), lungi dal costituire un limite all’esperibilità dell’accesso documentale ai sensi della l. n. 241/1990 (prima o in pendenza del giudizio sulla situazione giuridica “finale”), sembra presupporre (e in qualche modo imporre) il previo esperimento di ricerche presso la P.A.
Tali strumenti, infatti, sono stati configurati (dal codice di rito civile) come tendenzialmente residuali rispetto alle forme di acquisizione dei documenti da parte dei privati, anche in funzione della loro produzione in giudizio, sulla base di “correlative discipline di natura sostanziale” (come l’acceso agli atti).
Un’ultima osservazione riguarda il rapporto tra disciplina dell’accesso (ai sensi della l. n. 241/1990) e legittimazione (all’ostensione) da parte dell’impresa che, di seguito all’aggiudicazione del contratto, perde la possibilità di operare nell’appalto (perché, ad esempio, in qualità di esecutrice indicata da una mandante, subisce gli effetti del recesso dall’RTI operato dalla propria dante causa) e, non di meno, fa intendere (dinanzi al giudice dell’accesso) di voler agire per tutelarsi riguardo asseriti pregiudizi subiti.
In questo caso, il TAR, in una recente sentenza (TAR Lazio, Roma, sez. III, 29 dicembre 2023, n. 20007), ha dichiarato inammissibile la contestazione avverso la determinazione della stazione appaltante di rigetto dell’istanza di accesso, poiché ha rilevato come l’interesse fatto valere con l’istanza fosse (in realtà) quello: “…di impresa esecutrice di un contratto di appalto, posizione che, tuttavia, era alla data dell’istanza ormai insussistente [essendosi già prodotto il recesso dall’RTI della mandante-dante causa della ditta esecutrice], così disvelandosi il difetto di legittimazione della ricorrente per come prospettata nella richiesta”.

Brevi considerazioni conclusive

Nella dimensione della contrattualistica pubblica, l’accesso agli atti è funzionale – nella maggioranza dei casi – all’attuazione del diritto a proporre un ricorso efficace avverso le scelte della stazione appaltante, qualora l’operatore economico le ritenga non orientate al perseguimento del pubblico interesse o comunque le valuti illegittime.
Dalla sentenza, al di là dei profili specifici sopra indicati e declinati, emerge – se si guarda con attenzione – un qualcosa di più generale e interessante.
Ciò che si nota (e che rileva sottotraccia nella decisione) è il serrato confronto (attraverso le norme sull’accesso documentale) tra valori costituzionali, dialogo che ormai da qualche anno anima in modo costante la disciplina dell’accesso e la trasparenza della P.A.
Si tratta valori espressi da norme e principi destinati, da un lato, a garantire il buon andamento della macchina burocratica (art. 97 Cost.) e, dall’altro, a tutelare la riservatezza delle persone, i diritti inviolabili (il riferimento è principalmente agli articoli 2, 13-15 e 21 Cost.), i valori pertinenti la giurisdizione (artt. 111 e 113 Cost.) e quelli della concorrenza e della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.).
La questione, di stretta attualità, riguarda principalmente la prevalenza (o meno) degli “interessi” (apparentemente) individuali (cui si legano alcuni dei principi sopra indicati) rispetto agli “interessi” di tutti (e cioè collettivi, istituzionali, ecc.) che caratterizzano l’agire amministrativo.
Di esempi, in materia, se ne potrebbero fare molti.
Qui basta dire solo che il fenomeno non è nuovo, perché si accompagna a quella corrente di pensiero (messa in pratica anche dal legislatore), la quale nega l’esistenza di una gerarchia “astratta e statica” di valori costituzionalmente garantiti, in forza – invece – di una tutela “sistematica e dinamica”, che tenga conto, cioè, di tutti gli interessi antagonisti.
Il punto di equilibrio, tra questi valori, non risulta stabilito in anticipo, ma è rimesso al bilanciamento (al c.d. “fair balance”) del legislatore, della pubblica amministrazione e, in sede di controllo, del giudice in base ai criteri di proporzionalità e di ragionevolezza.
Per la pubblica amministrazione, il problema attiene ai limiti che può incontrare la comparazione (qualitativa e quantitativa) degli interessi pubblici, privati e collettivi concorrenti in una determinata “situazione sociale oggettiva” (si pensi, per alzare il livello di astrazione, all’esigenza di conoscere, da parte degli operatori economici, il contenuto delle informazioni su cui si andranno a costruire le future politiche in tema di promozione della concorrenza), il cui raffronto è imposto dalla circostanza che un determinato interesse (pubblico o privato) non esiste mai isolato nel mondo ed è mutevole nel tempo.
Diverso, invece, è il ruolo del giudice.
Analizzando la materia dell’accesso (e della trasparenza), si torna al tema – sempre incalzante – della c.d. tripolarità del giudice, al suo ruolo di guida della società e di “rule-maker”, con una funzione, spesso, di supplenza nei riguardi della politica.
La materia dell’accesso, in tal senso, è un buon settore di indagine, perché le questioni si pongono senza filtri. Appare subito evidente – come appare evidente nella decisione qui esaminata – il conflitto tra norme e valori costituzionali che si agita dietro (e al di sotto) le disposizioni e la loro applicazione (da un lato, l’esigenza di riservatezza legata al contenuto della contabilità dell’appalto, dall’altro, la necessità di reperire documenti idonei a dimostrare in giudizio l’inadempimento di un accordo intervenuto tra terzi).
E appare subito chiaro il ruolo creativo e di mediazione del giudice: coprire le lacune delle norme e – allo stesso tempo – mediare e poi selezionare, tra i principi costituzionali sottesi alle disposizioni applicabili al caso concreto, quale debba “prevalere”.
Nella fattispecie, peculiare rilievo lo ha avuto il principio della tutela dei diritti dinanzi al giudice (civile), risultandone recessivo, invece, quello della “libertà” degli atti (con le relative conseguenze giuridiche) frutto dell’iniziativa economica privata.

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