L’imperativo categorico è “fare” e possibilmente in fretta. Produrre, legiferare, agire, in modo da essere nella condizione di rivendicare “quanto” si è fatto.
Il problema, come sempre, è che l’azione di amministrazione e guida, da un semplice condominio fino ad arrivare ad una Nazione, non può misurarsi nella quantità delle “cose che si fanno” o delle “riforme”. L’occhio dovrebbe stare attento alla qualità delle misure adottate, visto che, specie se si guida una Nazione, impattano sulla vita di milioni di persone.
Il d.lgs. 50/2016, nuovo codice dei contratti, rappresenta un archetipo di questa coazione a ripetere compulsiva di fare le riforme per fare le riforme, senza attenzione alcuna alla qualità e all’impatto. Non è il solo: praticamente l’intero pacchetto degli 11 decreti legislativi attuativi della “riforma Madia” è stato oggetto di critiche pesantissime da parte del Consiglio di stato, come del resto proprio il codice dei contratti. Perfino riforme in teoria semplicissime, come quella del pagamento del canone Rai, si sono dimostrate una Waterloo amministrativa e giuridica.
Eppure, riformare la normativa sui contratti sarebbe stato semplicissimo. Era certamente opportuno rivedere a fondo il d.lgs. 163/2006, frutto, è bene ricordarlo, di una delega legislativa che ha affidato sostanzialmente al Consiglio di stato (lo stesso era avvenuto per i testi unici sull’espropriazione e sull’edilizia) il compito di redigerlo. Il risultato? Una massa spaventosa di adempimenti ed attività, tutte scritte a partire da un’impostazione giurisdizionale e, quindi, nell’ottica del formalismo più esasperato, per superare indenni i ricorsi. Si è dato troppo spazio alla concezione processuale, relegando il diritto sostanziale, cioè la mira al buon andamento e funzionamento degli istituti, in un angolo. Per questo il d.lgs 163/2006 è stato oggetto di decine e decine di interventi correttivi.
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