Rimessa alla Corte Costituzionale la legittimità dell’automatica emissione della comunicazione antimafia nei confronti di una società i cui soggetti apicali abbiano ricevuto una sentenza penale di condanna, confermata in grado di appello, per il reato di traffico illecito di rifiuti, anche in forma non associativa

TAR Piemonte, Sez. I, ord. coll. n. 448 del 28/04/2021

Martina Alò 3 Settembre 2021
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TAR Piemonte, Sez. I, ord. coll. n. 448 del 28/04/2021

Il TAR Piemonte ha sollevato incidente di legittimità costituzionale affinché la Corte si pronunci sulla legittimità del meccanismo in base al quale alla condanna definitiva, o comunque confermata in appello, per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies c.p. (traffico illecito di rifiuti nella forma non associativa), consegue automaticamente un provvedimento interdittivo, chiedendo se non sia, invero, necessaria, un’ulteriore valutazione in concreto, non prevista dalla norma, in merito alla connessione fra il delitto commesso ed il fenomeno associativo criminale.

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Con la pronuncia in esame il TAR Piemonte innesta un ulteriore tassello nella discussione relativa alla documentazione antimafia, con particolare riguardo alla ritenuta necessità che – anche in presenza di condanna per il “delitto spia” relativo al traffico illecito di rifiuti – l’emissione di un provvedimento antimafia non debba comunque conseguire ad una valutazione in concreto circa la presenza di un collegamento fra il compimento del reato e l’attività della criminalità organizzata di stampo mafioso e che, quindi, l’automatismo oggi previsto dal combinato disposto degli artt. 67 e 84 del codice antimafia, sia incompatibile con la ratio sottesa a tali istituti.

La sentenza trae origine dall’emissione di una comunicazione antimafia a carico di una società, fondata esclusivamente sulla presenza di una condanna per traffico illecito di rifiuti, confermata in appello, a carico di alcuni dei relativi procuratori, altresì soci di maggioranza del socio unico della società.

Importante sottolineare che la stessa sentenza di condanna richiamata nella comunicazione antimafia escludeva espressamente che “nella vicenda in esame possa ritenersi configurata la fattispecie ex art. 416 c.p.”.

La società ha impugnato il provvedimento prefettizio, sollevando molteplici profili di doglianza e, da ultimo, chiedendo che venisse sollevato un incidente di costituzionalità in merito all’effetto immediatamente interdittivo di una circostanza – l’esistenza di una sentenza di condanna confermata in grado di appello, che espressamente aveva escluso la presenza di profili di stampo associazionistico – che la ricorrente riteneva essere di per sé neutra rispetto al rischio di infiltrazione mafiosa.

Il TAR Piemonte, nel condividere la necessità di disporre il rinvio alla Corte Costituzionale, premette anzitutto che alla luce dell’esame del dato normativo per come emerge dal codice antimafia, il provvedimento impugnato risulterebbe allo stato legittimo, posto che l’art. 67, comma 8 del d.lgs. n. 159/2011 prevede espressamente come situazioni ostative al rilascio della liberatoria antimafia le condanne con sentenza confermata in grado di appello per uno dei delitti di cui all’art. 51 comma 3 bis c.p.p., tra cui figura il delitto di traffico illecito di rifiuti, configurato prima dall’art. 260 del d.lgs. n. 152/ 2006, e attualmente dall’articolo 452-quaterdecies del codice penale.

Stante l’inequivocità del testo di legge, non vi è modo di dare un’interpretazione costituzionalmente orientata alla norma che consenta all’Amministrazione di verificare in concreto, prima di emettere il provvedimento antimafia, che il reato si riconnetta all’attività delle organizzazioni criminali di stampo mafioso, essendo a tal fine sufficiente l’esistenza della sentenza di condanna.

Il preciso dato testuale della norma non consente di affermare che sussistano margini di discrezionalità in capo all’Amministrazione nel decidere, in presenza delle fattispecie richiamate dall’art. 67, se adottare o meno la comunicazione antimafia; provvedimento, questo, che è stato in molteplici occasioni definito come automatico in presenza di determinati e tassativi requisiti (tra le tante, Cons. Stato, sez. III, 18 giugno 2019, n. 4145).

Fatta questa premessa, il Collegio ha tuttavia concordato sulla eccessiva rigidità di tale sistema, formulato in modo tale da non permettere alla Pubblica Amministrazione di tenere conto delle peculiarità del caso concreto in tutti quei casi in cui si realizzino specifiche fattispecie non immediatamente riferibile a condotte riconducibili ad attività di criminalità organizzata, tra le quali, appunto, la condanna (anche non definitiva, purchè confermata in grado di appello) per il reato di cui all’art. 452-quaterdecies del codice penale, ravvedendo pertanto la necessità di sollevare un incidente di costituzionalità, alla luce di dubbi di compatibilità del sistema in esame con in il principio di proporzionalità e altri canoni di rango costituzionale.

A tal fine è stato messo in evidenza come il delitto di traffico illecito di rifiuti di cui all’art. 452-quaterdecies c.p. (già previsto dall’art 260 del codice dell’ambiente, d.lgs. n. 152/2006), che punisce “chiunque, al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l’allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa o comunque gestisce abusivamente ingenti quantità di rifiuti”, nulla ha a che vedere, di per sé, con l’associazione per delinquere ex art. 416 c.p.; le due fattispecie (art. 452-quaterdecies e art. 416 c.p.) tutelano difatti beni diversi – l’incolumità pubblica, sotto forma della tutela ambientale, il primo, l’ordine pubblico il secondo ­– e non sono ex se sovrapponibili, bensì possono concorrere ricorrendone i relativi presupposti.

Tale constatazione stride pertanto con l’evidenza che, nell’attuale struttura del codice antimafia, la mera condanna per il reato ambientale costituisca di per sé presupposto per l’adozione di una comunicazione antimafia ai sensi dell’art. 67, comma 8, del codice antimafia, senza garantire che l’Autorità emittente possa eseguire un effettivo riscontro in merito alla sussistenza dei requisiti giustificativi della misura stessa, precipuamente incentrati al contrasto delle organizzazioni mafiose.

Se è infatti vero che l’interesse che da anni muove le organizzazioni criminali di tipo mafioso nel settore dei rifiuti rappresenti un fatto notorio, tanto che è stato coniato un termine ad hoc per definirle, “ecomafie”, ciò non implica necessariamente che tutti i soggetti condannati per traffico illecito di rifiuti siano ipso facto a rischio di collusione con ambienti della criminalità organizzata.

Il Collegio ha quindi ritenuto che l’art. 67, comma 8, del codice antimafia, come richiamato dal secondo comma dell’art. 84, nella parte in cui  si riferisce anche al reato di cui all’art. 452-quaterdecies c.p., anche nella sua forma non associativa, necessiti di una revisione sul piano della conformità costituzionale, atteso che la legittimità dell’automatismo interdittivo della comunicazione antimafia deve essere fondato sulla necessaria condanna per reati che presentino lo stretto collegamento con l’attività della criminalità organizzata di stampo mafioso, risultando viceversa sproporzionato ed incompatibile con la ratio stessa della normativa antimafia.

Affinché il meccanismo possa considerarsi legittimo, ritiene il Collegio che dovrebbe essere introdotta anche in questo caso, come già avviene per la contigua ipotesi dell’interdittiva antimafia, una specifica valutazione in concreto, attualmente non prevista dalla norma, in merito alla sussistenza dei requisiti riguardanti la connessione con il fenomeno associativo criminale; conclusione, questa, ancor più valida nel caso esaminato dal collegio torinese, in virtù del fatto che la sentenza che aveva costituito esclusivo spunto per l’emissione della comunicazione antimafia a carico della società in cui operavano i soggetti condannati, escludeva espressamente il carattere associativo dell’attività criminosa e l’eventuale collegamento delle condotte con la criminalità organizzata.

Questa pronuncia si innesta nel solco di numerose altre che, nel corso degli anni, insistono nel tentativo di mitigare in sede pretoria le rigidità del sistema normativo scaturente dal codice antimafia, nell’arduo compito di contemperare la sacrosanta tutela dell’ordine pubblico – ratio del sistema antimafia – con altri e parimenti rilevanti principi – fra i principali quello della libera iniziativa imprenditoriale, di proporzionalità ed uguaglianza – che non possono essere considerati dalla legge tout court recessivi, bensì necessitano, come emerge dalla lettura di queste sentenze, di una adeguata e specifica ponderazione volta per volta.

Così facendo si vuole evitare che la logica di prevenzione che giustifica l’applicazione delle (fortemente afflittive) misure antimafia, sconfini in quello che è stato definito (dalla stessa giurisprudenza) come un “diritto della paura” mediante l’adozione di atti che, snaturando la valenza anticipatoria dei provvedimenti antimafia, diventano in sostanza (illegittimi) provvedimenti sanzionatori.

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