I risultati del procedimento di revisione prezzi, come ritenuto dalla giurisprudenza amministrativa, sono quindi espressione di una facoltà discrezionale, che sfocia in un provvedimento autoritativo, il quale deve essere impugnato nel termine decadenziale di legge.
L’obbligatoria inserzione di una clausola di revisione periodica del prezzo, da operare sulla base di un’istruttoria condotta dai competenti organi tecnici dell’Amministrazione, non comporta pertanto anche il diritto all’automatico aggiornamento del corrispettivo contrattuale, ma soltanto che l’Amministrazione proceda agli adempimenti istruttori normativamente sanciti.
E’ quanto stabilisce il Consiglio di Stato con la sentenza della V sez. del 6 settembre 2022 n. 7756.
La decisione
Tra gli argomenti trattati dalla decisione in rassegna (la quale affronta sotto diversi profili il tema della revisione del prezzo del contratto) si annovera la qualificazione del potere amministrativo a fronte dell’istanza di revisione dell’impresa, e, per altro verso, la qualificazione della situazione giuridica soggettiva del privato che chiede la modifica del prezzo del contratto.
La decisione si sviluppa intorno ad alcune coordinate che meritano d’essere messe in evidenza. A proposito del potere, il Consiglio di Stato spiega che la P.A. è titolare di un potere autoritativo che sfocia nella decisione di accogliere o rigettare l’istanza di revisione. Decisione quest’ultima connotata da discrezionalità amministrativa.
In merito alla situazione giuridica soggettiva del privato, per il giudice amministrativo la posizione dell’appaltatore è di interesse legittimo.
Quanto invece al contenuto dell’attività valutativa che la P.A. è chiamata a svolgere a fronte della richiesta di effettuare la revisione, il giudice amministrativo ha chiarito che la Stazione Appaltante deve effettuare un bilanciamento tra l’interesse dell’appaltatore alla revisione e l’interesse pubblico connesso sia al risparmio di spesa, sia alla regolare esecuzione del contratto aggiudicato.
Sul punto la decisione in esame si è rifatta all’orientamento giurisprudenziale già espresso dal Consiglio di Stato (ex multis Cons. Stato, Sez. III, 9/01/2017, n. 25) che ha chiarito come “la finalità dell’istituto è da un lato quella di salvaguardare l’interesse pubblico a che le prestazioni di beni e servizi alle pubbliche amministrazioni non siano esposte col tempo al rischio di una diminuzione qualitativa, a causa dell’eccessiva onerosità sopravvenuta delle prestazioni stesse, e della conseguente incapacità del fornitore di farvi compiutamente fronte (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 7 maggio 2015 n. 2295; Consiglio di Stato, Sez. V, 20 agosto 2008 n. 3994), dall’altro di evitare che il corrispettivo del contratto di durata subisca aumenti incontrollati nel corso del tempo tali da sconvolgere il quadro finanziario sulla cui base è avvenuta la stipulazione del contratto” (nello stesso senso cfr. anche Cons. Stato, Sez. V. 23 aprile 2014, n. 2052; Sez. III, 4 marzo 2015, n. 1074; Sez. V, 19 giugno 2009, n. 4079; Sez. III, 9 maggio 2012, n.2682).
In merito invece agli interessi in gioco, la sentenza spiega che lo scopo principale dell’istituto è quello di tutelare l’interesse pubblico ad acquisire prestazioni di servizi qualitativamente adeguate; solo in via mediata e indiretta la disciplina realizza anche l’interesse dell’impresa, a non subire l’alterazione dell’equilibrio contrattuale conseguente alle modifiche dei costi che si verificano durante l’arco del rapporto (Consiglio di Stato, Sez. III, Sentenza n. 4362 del 19-07-2011; conforme Sez. V, 22 dicembre 2014, n. 6275; id., 24 gennaio 2013 n. 465).
Il tratto autoritativo e discrezionale del potere immanente in capo alla P.A. in subiecta materia, l’attività istruttoria imposta a seguito dell’istanza, e la comparazione degli interessi, pubblici e privati, conduce ad escludere che la pretesa vantata dall’appaltatore abbia la consistenza di un diritto soggettivo perfetto suscettibile di accertamento e condanna da parte del giudice amministrativo.
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