L’equo compenso e i contratti pubblici – Tar Sicilia, Sez. II, 8 ottobre 2024, n. 3319

A cura di Roberto Mangani

29 Ottobre 2024
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La recente sentenza del Tar Sicilia, Sez. II, 8 ottobre 2024 , n. 3319 ripropone sotto uno specifico profilo la questione – che da più di un anno suscita un acceso dibattito – del rapporto esistente tra la disciplina dell’equo compenso e quella che regola l’affidamento dei contratti di servizi di ingegneria ai sensi del D.lgs. 36/2023.
La questione affrontata nella richiamata pronuncia riguarda una procedura di gara per l’affidamento della Direzione lavori in cui era previsto che il corrispettivo posto a base d’asta potesse essere ribassato esclusivamente con riferimento alla componente relativa alle spese generali e oneri accessori.
Il tema specifico esaminato dal giudice amministrativo ha riguardato l’ammissibilità, rispetto alla componente indicata, di un ribasso pari al 100 %.
Per comprendere pienamente la portata e il significato di questa pronuncia occorre tuttavia inquadrarla nel contesto più generale, che riguarda i complessi rapporti tra la disciplina dell’equo compenso e quella che regola l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto i servizi di ingegneria.
 

Indice

La legge sull’equo compenso


La questione interpretativa che investe i suddetti rapporti trae origine dall’entrata in vigore della legge 49/2023 che disciplina l’equo compenso delle prestazioni professionali.
Tale legge definisce “equo compenso” quello proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto e al contenuto e alle caratteristiche della prestazione professionale resa.
Di particolare rilievo per il nostro tema è la presunzione di equità contenuta nella stessa legge 49. Viene infatti considerato “equo” il compenso definito dai relativi Decreti ministeriali con riferimento alle professioni legali e a quelle rese da professionisti iscritti agli ordini e collegi (quindi in primo luogo ingegneri e architetti).
Sempre ai nostri fini, assume valore centrale – e, come si vedrà, per alcuni aspetti dirimente – la definizione dell’ambito di applicazione della disciplina dell’equo compenso come operata dalla stessa legge 49, con riferimento alla tipologia contrattuale con cui vengono rese le prestazioni. Vengono infatti precisati due elementi fondamentali ai fini dell’applicazione della disciplina dell’equo compenso: tale disciplina si applica i) alle prestazioni d’opera intellettuale rese ai sensi dell’articolo 2230 del codice civile e ii) regolate da specifiche convenzioni aventi ad oggetto lo svolgimento delle relative attività professionali. Viene altresì precisato che le disposizioni trovano applicazione alle prestazioni rese a favore della pubblica amministrazione e delle società a partecipazione pubblica disciplinate dal D.lgs. 175/2016.
Significative sono le conseguenze della mancata applicazione della disciplina sull’equo compenso. E’ infatti previsto che le clausole che definiscono un compenso non equo – quindi inferiore alle tariffe professionali definite nei relativi Decreti ministeriali – devono considerarsi nulle. Si tratta di una nullità parziale, nel senso che la sanzione riguarda solo le singole clausole e non investe l’intero contratto, che resta valido ed efficace.
La nullità può essere fatta valere dal professionista interessato presso il tribunale territorialmente competente – quello ove il professionista ha la sua residenza o domicilio – che procede alla rideterminazione del compenso secondo i parametri fissati dai relativi Decreti ministeriali.
La disciplina si completa poi con alcune previsioni relative a un eventuale indennizzo a favore del professionista, al rilascio di un parere di congruità in merito alla congruità del compenso emesso dall’ordine o collegio professionale interessato, all’azione di classe che può essere proposta dal Consiglio nazionale dell’Ordine al quale sono iscritti i professionisti interessati e all’istituzione presso il Ministero della giustizia di un Osservatorio nazionale sull’equo compenso chiamato a vigilare sull’osservanza della disciplina.

L’affidamento dei servizi di ingegneria ai sensi del D.lgs. 36/2023


Il D.lgs. 36 prevede all’articolo 41, comma 15 che i corrispettivi per i servizi di progettazione, articolati con riferimento alle diverse fasi progettuali e alle attività correlate (coordinamento della sicurezza, direzione lavori, collaudo) vengano determinati in applicazione dei parametri definiti nell’Allegato I.13. Tali parametri, a loro volta, vengono stabiliti nell’Allegato facendo riferimento alle tariffe definite nel Decreto ministeriale 17 giugno 2016.
Ai sensi delle tariffe, i corrispettivi indicati si compongono di due distinte voci: compenso in senso proprio da un lato e spese generali e oneri accessori dall’altro.
L’articolo 41 stabilisce in maniera inequivoca che i corrispettivi così definiti rappresentino la base di gara che le stazioni appaltanti devono indicare nella relativa documentazione. Ciò implica, secondo il meccanismo tipico delle procedure di gara, che il relativo importo può subire ribassi a seguito delle offerte presentate.
Questo elemento rappresenta il punto critico su cui si incentra il cuore della questione: in sostanza, il D.lgs. 36 consente di affidare le prestazioni professionali a fronte di un corrispettivo ribassato rispetto a quanto indicato nelle tariffe professionali, mentre nella legge 49/2023 il compenso definito nelle tariffe è considerato “equo” e come tale non suscettibile di ribasso. 
Volendo portare alle sue estreme conseguenze la coerente interpretazione della normativa sull’equo compenso, si deve concludere che la stessa avrebbe nei fatti reintrodotto nel sistema degli affidamenti dei contratti pubblici il concetto di “tariffe minime”, come tali inderogabili.

La questione controversa


Dalla definizione dei due ambiti normativi nasce la questione controversa ed oggetto di ampio dibattito nell’ultimo anno.
Come accennato, la questione si può riassumere in estrema sintesi nel contrasto che emerge tra le due discipline in relazione alla quantificazione dei corrispettivi da riconoscere per lo svolgimento delle prestazioni di ingegneria: i corrispettivi definiti con il Decreto ministeriale – come rivisto e adattato dall’Allegato I.13 – sono considerati dal D.lgs. 36 come importi da porre a base di gara, come tali suscettibili di ribasso; al contrario per la legge 49/2023 gli stessi sono minimi inderogabili, nel senso che non sono ribassabili in quanto l’affidamento dei servizi di progettazione deve avvenire necessariamente sulla base del corrispettivo definito dal decreto ministeriale. 
La questione è stata affrontata anche dall’ANAC. Al di là di alcuni Pareri rilasciati nel tempo con contenuti tra loro non omogenei, è opportuno fare riferimento al Documento di consultazione redatto ai fini dell’emanazione del bando tipo per l’affidamento dei servi di progettazione.
In questo Documento l’Autorità ha individuato tre possibili soluzioni alla questione indicata:  a) l’importo a base di gara è in termini assoluti escluso dalla possibilità di ribasso; b) sono soggette a ribasso solo le spese generali; c) l’intero importo a base di gara è ribassabile, sul presupposto che la legge sull’equo compenso non trovi applicazione agli affidamenti dei servizi di progettazione operati ai sensi del D.lgs. 36.
Ognuna di queste tre soluzioni ha trovato riscontro in una serie di argomentazioni sviluppate a sostegno di ciascuna di esse.

La tesi dell’applicabilità


La prima tesi – non ribassabilità dell’importo a base di gara – si sostanzia nella ritenuta piena applicabilità della disciplina sull’equo compenso agli affidamenti dei servizi di ingegneria operati ai sensi del D.lgs. 36.
Questa tesi ha trovato la sua più compiuta espressione in una sentenza del Tar Veneto, Sez. III, 3 aprile 2024, n. 632, cui è seguita un’altra pronuncia dello stesso tenore, Tar Lazio, Sez. V- ter, n. 8580/2024.
Secondo la prospettazione accolta nelle richiamate sentenze, non vi sarebbe antinomia tra la legge 49/2023 e la disciplina dei contratti pubblici.
In particolare, per giungere a questa conclusione il TAR Veneto evidenzia in primo luogo che la legge sull’equo compenso ha inteso tutelare i professionisti in quanto “contraenti deboli” nei confronti di una serie di committenti, tra cui anche le pubbliche amministrazioni. Di conseguenza, tale legge sarebbe necessariamente applicabile anche ai contratti pubblici, pena il mancato raggiungimento – nei confronti dei committenti pubblici – dell’obiettivo che si prefiggeva, con un evidente indebolimento della finalità sottesa alla legge medesima
Peraltro, articolando in maniera più dettagliata il suo ragionamento, il giudice amministrativo fonda la piena compatibilità tra la disciplina dell’equo compenso e la normativa sui contratti pubblici su una lettura coordinata delle stesse.
Secondo questa lettura il ribasso potrebbe essere formulato non sul compenso in senso proprio – che in quanto “equo” ai sensi della legge 49 non può essere derogato – ma esclusivamente su alcune componenti del corrispettivo che non sarebbero da considerare compenso in senso proprio: spese generali e oneri accessori.
Sviluppando ulteriormente il suo iter argomentativo, il TAR Veneto accentua ancora di più la forza cogente della disciplina sull’equo compenso. Viene infatti affermato che anche qualora il Disciplinare di gara non abbia esplicitamente previsto la non ribassabilità del corrispettivo posto a base di gara – nella componente spese generali e oneri accessori –  questa mancanza può ritenersi colmata sulla base del principio dell’eterointegrazione.
In sostanza, la legge 49 che sancisce l’immodificabilità del compenso ritenuto equo, verrebbe ad integrare dall’esterno le previsioni del Disciplinare.
Ciò in quanto la normativa sull’equo compenso avrebbe carattere imperativo, in quanto diretta da un lato a dare attuazione all’articolo 36 della Costituzione sul diritto a un’equa retribuzione del lavoro  e  dall’altro a rafforzare la tutela del professionista quale “contraente debole” nei confronti del “committente forte”.
Inoltre il carattere imperativo sarebbe rafforzato proprio in relazione alle prestazioni di cui sia committente una pubblica amministrazione, rispetto alle quali vengono in considerazione “interessi generali ulteriori correlati alla tutela della concorrenza e della par condicio dei concorrenti in gara”.
Sembra quindi che il giudice amministrativo sviluppi il seguente sillogismo: l’eterointegrazione dipende dall’imperatività della norma che a sua volta deriva dal fatto che la stessa persegue un interesse generale. In sostanza, la tutela del professionista – in quanto ritenuto “contraente debole” – viene assunta al rango di interesse generale.
A prescindere da ogni altra considerazione sulla correttezza dell’insieme delle argomentazioni sviluppate dal giudice amministrativo, questo passaggio suscita molte perplessità
Seguendo la logica del Tar Veneto, si deve ritenere che l’interesse generale coincida con l’obbligo di applicazione dell’equo compenso agli affidamenti di contratti pubblici. Quando invece – in una visione più ampia e comprensiva di tutti gli elementi in gioco e non solo di quelli che sono propri delle categorie professionali  – appare più corretto ritenere che l’interesse generale sia quello di dare piena attuazione a una concorrenza piena e effettiva, che non può prescindere dall’elemento economico delle offerte. 
In sostanza, il ragionamento del TAR Veneto sotto questo profilo sembra inficiato da un vizio di fondo: una sovrapposizione impropria tra la tutela (legittima) dell’interesse di una categoria professionale e l’interesse generale dell’intera collettività. Quando in realtà i due interessi non necessariamente coincidono, e la disciplina dei contratti pubblici – considerata anche la sua matrice di origine comunitaria – è per sua natura finalizzata a dare attuazione in primo luogo al principio di concorrenza, quale elemento emblematico dell’interesse generale.   

La tesi della non applicabilità


La tesi opposta afferma che la disciplina dell’equo compenso non si applica ai contratti pubblici. Tale tesi si fonda su una nutrita serie di argomenti, che considerati nel loro complesso appaiono molto convincenti.
Un primo argomento riguarda il profilo oggettivo della disciplina introdotta dalla legge 49, cioè la tipologia di contratti rispetto ai quali la stessa trova applicazione.
Come già detto, l’articolo 2, comma 1 della legge 49 definisce il proprio ambito di applicazione in relazione ai rapporti professionali aventi ad oggetto prestazioni d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile.
Ciò significa che la relativa disciplina è circoscritta alle ipotesi in cui la prestazione professionale trovi origine in un contratto d’opera caratterizzato dall’elemento personale, in cui il singolo professionista assicura lo svolgimento della relativa attività principalmente con il proprio lavoro autonomo.
La stessa giurisprudenza ha più volte evidenziato la differenza tra questa ipotesi e l’altra in cui la prestazione professionale viene resa attraverso una articolata organizzazione di mezzi e risorse e con assunzione del relativo rischio imprenditoriale. Quest’ultima ipotesi è stata correttamente inquadrata nell’appalto di servizi, che quindi resta nettamente distinto dal contratto d’opera.
L’affidamento dell’attività di progettazione disciplinato dal D.lgs. 36 avviene indiscutibilmente attraverso un appalto di servizi. Ne consegue che si può ragionevolmente sostenere che tale tipologia contrattuale resti fuori dall’ambito applicativo della disciplina sull’equo compenso.
La stessa conclusione vale per l’attività di validazione, anch’essa caratterizzata dalla presenza di un’organizzazione imprenditoriale per lo svolgimento delle relative prestazioni.
Qualche dubbio potrebbe sussistere per le ulteriori prestazioni professionali quali la direzione lavori, il coordinamento della sicurezza e il collaudo. In questi casi l’elemento personale sembra in effetti avere un rilievo significativo, anche se non può trascurarsi che sotto il profilo della contrattualistica pubblica anche lo svolgimento di tali attività è stato tradizionalmente inquadrato nell’ambito dell’affidamento di un appalto di servizi.
Il secondo elemento a sostegno della tesi della non applicabilità si fonda anch’esso sulla natura del rapporto contrattuale che lega il prestatore d’opera professionale con il committente.
Sempre sotto il profilo della tipologia contrattuale in cui deve essere inquadrata la prestazione professionale ai fini dell’applicazione della disciplina dell’equo compenso, va evidenziato che l’articolo 2, comma 1 della legge 49 prevede che le prestazioni d’opera professionale cui si riferisce la normativa sono quelle regolate da “convenzioni”. Tale ultimo termine ha una valenza generica, e pone il tema di quali siano effettivamente le tipologie contrattuali alle quali si applica la disciplina dell’equo compenso.
Secondo una certa lettura interpretativa – che appare saldamente ancorata alla ratio della disciplina introdotta –  il termine “convenzione” sarebbe stato utilizzato dal legislatore per qualificare puntualmente determinati rapporti contrattuali, caratterizzati dallo svolgimento di una serie di attività in un determinato periodo temporale e a specifiche condizioni economiche. Si tratta delle note “convenzioni quadro” in cui il committente effettivamente svolge spesso un ruolo dominante nel prestabilire le relative condizioni, e i margini di negoziazione del professionista privato – realmente il contraente debole – risultano correlativamente ridotti.
Ne consegue che l’utilizzo del termine “convenzione” non sarebbe quindi casuale, ma discenderebbe proprio dall’esigenza di definire i rapporti contrattuali soggetti all’equo compenso sulla base della ratio ultima della relativa disciplina.
In sostanza, è proprio rispetto a queste ipotesi specifica che dispiegherebbe pienamente i suoi effetti la ratio della normativa sull’equo compenso, che in ultima analisi vuole tutelare il professionista in quanto contraente debole.
Al contrario, tale ratio non troverebbe spazio in tutti quei rapporti contrattuali in cui il contenuto delle relative condizioni, anche economiche, è il risultato di una libera contrattazione tra le parti in cui non vi è, per la natura stessa della libera contrattazione, un “committente forte” e un “contrente debole”.  E ciò è quello che accade tipicamente proprio nelle gare ad evidenza pubblica, in cui gli offerenti formulano le loro offerte nell’ambito di una competizione di mercato, con l’effetto che i corrispettivi offerti sono formulati sulla base di specifiche valutazioni di convenienza degli offerenti nell’ambito di dinamiche concorrenziali.
Anche sotto questo profilo quindi si deve ritenere che sia fortemente dubbio che i contratti pubblici (di appalto) aventi ad oggetto prestazioni professionali rientrino nell’ambito applicativo della legge sull’equo compenso, avendo significativi tratti distintivi rispetto alle “convenzioni”.
Oltre alle argomentazioni esposte, vi è una considerazione di fondo che induce a ritenere che la normativa sull’equo compenso non trovi applicazione in relazione alle prestazioni professionali oggetto di contratti pubblici.
Tale considerazione deriva dal fatto che non appare coerente leggere e interpretare una normativa in maniera isolata, cioè non tenendo conto del contesto ordinamentale complessivo in cui si inserisce. E’ questo l’errore di prospettiva che si rischia di fare se si intende applicare l’equo compenso a qualunque tipo di prestazione professionale, in maniera indistinta e acritica, senza tenere conto del contesto normativo di riferimento.  
E infatti una lettura di questo tipo significa nei fatti annullare i principi di concorrenzialità e di evidenza pubblica che nell’ambito della contrattualistica pubblica governano l’affidamento delle prestazioni professionali, cioè annullare con un tratto di penna una parte fondamentale del corpo normativo che disciplina gli appalti pubblici.
Tradotto in termini diversi, lo svolgimento di una gara appare ontologicamente incompatibile con l’applicazione dalla normativa sull’equo compenso. E siccome non appare ragionevole sostenere che tale ultima normativa abbia voluto nei fatti abrogare il principio della gara per le prestazioni professionali, sembra più corretto darne un’interpretazione che salvaguardi tale principio e opti per la non applicabilità della stessa agli appalti pubblici di servizi, ancorchè aventi ad oggetto attività professionali. 
La tesi della non applicabilità ha trovato accoglimento nella sentenza del TAR Campania, Sez. II, 16 luglio 2024, n. 1494 che ha ripreso alcuni degli argomenti indicati, evidenziando peraltro che la legge sull’equo compenso viene a introdurre tariffe minime inderogabili per lo svolgimento dei servizi professionali, la cui compatibilità con il diritto comunitario è fortemente dubbia.
Vi è infine un ulteriore argomento da considerare, che attiene alla particolare natura – che si potrebbe definire a vincolatività rafforzata – che connota la disciplina contenuta nel D.lgs. 36.
Ci si riferisce alla previsione contenuta all’articolo 227 del D.lgs. 36, che dispone testualmente: “Ogni intervento normativo incidente sulle disposizioni del codice e dei suoi allegati, o sulle materie dagli stessi disciplinate, è attuato mediante esplicita modifica, integrazione, deroga o sospensione delle specifiche disposizioni in essi contenute”.
Nella relazione accompagnatoria al D.lgs. 36 del Consiglio di Stato, si specifica che tale previsione “pone un principio di modificabilità solo esplicita delle disposizioni contenute nel codice e nei suoi allegati”, precisando poi, come naturale conseguenza di tale principio, che “vale il criterio ermeneutico che, nei casi dubbi, impone di escludere l’ammissibilità di ipotesi di abrogazione implicita”.
Il dato che emerge con nettezza dalla disposizione normativa e dalla relazione accompagnatoria è che tutte le norme contenute nel corpo del D.lgs. 36 e negli allegati non possono essere oggetto di abrogazione implicita. Ciò significa che per farle venire meno occorre un’abrogazione esplicita, cioè l’indicazione puntuale della disposizione che si intende abrogare contenuta in un’altra legge o altro atto avente forza di legge.
Altrettanto significativa è l’altra indicazione che si ricava dalla Relazione. Nei casi dubbi, il criterio interpretativo porta ad escludere che si possa optare per l’abrogazione implicita. Si tratta di un’indicazione che è pienamente aderente alla fattispecie dell’equo compenso: nel caso in cui la legge sopravvenuta sull’equo compenso ponga un dubbio sulla sua compatibilità con la precedente disposizione contenuta nel D.lgs. 36, tale dubbio non può essere risolto ritenendo che vi sia stata un’abrogazione implicita di questa seconda da parte della prima. 
In sostanza, se il legislatore avesse voluto con l’entrata in vigore della legge sull’equo compenso introdurre le tariffe minime e inderogabili per l’effettuazione dei servizi di progettazione avrebbe dovuto esplicitamente abrogare o modificare la disposizione contenuta nell’articolo 41, comma 15 del D.lgs. 36, che al contrario prevede che tali tariffe costituiscono solo il parametro per la determinazione dell’importo a base di gara.
La tutela rafforzata che l’articolo 227 del D.lgs. 36 ha introdotto per tutte le disposizioni del Codice, imponendo che le stesse debbano essere oggetto di abrogazione o modifica esplicita – che riprende peraltro analoghe previsioni contenute nei due Codici precedenti –  costituisce una tecnica legislativa che negli ultimi anni ha trovato significativo spazio in relazione a determinate materie.
Si tratta di una previsione che viene spesso inserita nelle leggi “di sistema”, cioè in quelle leggi destinate a regolare in maniera organica e completa una determinata materia (ad esempio lo Statuto del contribuente piuttosto che numerosi Testi unici).
Non si tratta solamente di un elemento formale, ma di una scelta legislativa di sostanza, che risponde a una logica ben definita.  Viene infatti introdotta una sorta di “riserva di abrogazione espressa”, diretta a garantire nella massima misura possibile la certezza del diritto, specie in relazione a provvedimenti legislativi complessi e articolati.
Il caso oggetto di attenzione offre piena evidenza di tale ratio. L’incertezza in merito alla norma da applicare nasce proprio dal fatto che la legge sull’equo compenso non ha previsto in maniera esplicita l’abrogazione o la modifica della disposizione del D.lgs. 36. Il che significa – letta al contrario – che la certezza del diritto è assicurata solo con l’abrogazione esplicita, che in questo caso non vi è stata.
Queste considerazioni assumono peraltro un rilievo ancora più significativo in una materia come quella dei contratti pubblici, che ha tradizionalmente tra i suoi cardini fondamentali il principio di concorrenzialità. La disciplina sull’equo compenso rappresenta  infatti un’oggettiva limitazione al pieno dispiegarsi di tale principio, poichè impedisce che l’elemento prezzo svolga qualunque tipo di ruolo ai fini dell’affidamento del contratto.
In questo quadro trova rinnovato spazio l’argomento secondo cui, in coerenza con l’espressa formulazione sella legge sull’equo compenso, quest’ultima debba trovare applicazione esclusivamente in relazione alle prestazioni professionali che si inquadrano nell’ambito del contratto d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del Codice civile. Mentre, al contrario, la stessa disciplina non troverebbe applicazione agli appalti di servizi, che sono la tipologia contrattuale oggetto di affidamento ai sensi del D.lgs.36. Distinzione ben chiara nell’elaborazione giurisprudenziale, anche della Corte di Cassazione (vedi la recentissima Cass. Civile, Sez. II, Ordinanza 9 febbraio 2024, n. 3682).

La sentenza del Tar Sicilia: il ribasso solo su spese generali e oneri accessori 


E’ in questo contesto molto articolato che si colloca la sentenza del Tar Sicilia, Sez. II, 8 ottobre 2024, n. 3319.
La pronuncia è intervenuta in relazione a una procedura aperta per l’affidamento di un incarico di Direzione lavori. Il disciplinare di gara prevedeva che il corrispettivo da riconoscere all’affidatario – determinato facendo applicazione delle tabelle di cui al Decreto del Ministro della Giustizia del 17 giugno 2016 – fosse pari all’importo di circa 300.000 euro, cui andava aggiunta la somma di circa 60.000 euro per spese generali e oneri accessori.
Veniva altresì stabilito che – in applicazione della disciplina dell’equo compenso, nella terza delle interpretazioni ritenute possibili – il ribasso fosse consentito solo sull’importo riconosciuto a titolo di spese generali e oneri accessori.
In sede di gara un concorrente proponeva un ribasso su spese generali e oneri accessori pari al 100% del relativo importo, con ciò azzerando totalmente tale voce del corrispettivo. Anche in considerazione di tale ribasso, l’offerta in questione risultava aggiudicataria.
Il provvedimento di aggiudicazione veniva impugnato dal secondo classificato in graduatoria.
Il ricorrente  evidenziava preliminarmente che l’ente appaltante ai fini della determinazione dell’importo da porre a base di gara ha utilizzato i parametri indicati nelle tabelle di cui al Decreto del Ministro della Giustizia del 17 giugno 2016, richiamato nell’Allegato I. 13 del D.lgs. 36.
Tali parametri prevedono che il corrispettivo per i servizi di ingegneria e architettura – tra cui è ricompresa la direzione lavori – sia costituito dal compenso in quanto tale e dalle spese generali e oneri accessori, queste ultime quantificate dal DM in misura forfettaria in relazione all’importo delle opere.
L’aggiudicatario in sede di offerta ha formulato un ribasso sull’importo delle spese generali e oneri accessori – quantificate in circa 60.000 euro – pari al 100%, cioè ha rinunciato totalmente a questa parte di corrispettivo.
Il ricorrente, nell’evidenziare che appare impossibile che l’aggiudicatario non debba sopportare alcun esborso a titolo di spese generali e oneri accessori, ha censurato il comportamento della stazione appaltante che non ha ravvisato profili di anomalia nell’offerta presentata, ritenendo che il ribasso del 100% sulla voce spese generali e oneri accessori non incidesse sulla corretta esecuzione dell’appalto.
Il giudice amministrativo ha tuttavia respinto il ricorso. A sostegno della decisione il Tar Sicilia ha evidenziato come non fossero stati acquisiti elementi di prova tali da far ritenere o quanto meno da far dedurre che l’importo di circa 300.000 euro – che è il corrispettivo riconosciuto al netto delle spese generali e oneri accessori – non costituisse un equo compenso.
In sostanza, il giudice amministrativo ha ritenuto che il compenso debba ritenersi equo anche azzerando del tutto la voce spese generali e oneri accessori. Tale compenso deve essere considerato adeguato e accettabile, e di conseguenza la relativa offerta non presenta caratteri di anomalia. Ciò anche alla luce della considerazione secondo cui non sussiste alcun vincolo normativo che impedisca di ribassare anche del 100% la voce spese generali e oneri accessori, tenuto conto che tale voce non appare imprescindibile ai fini della determinazione di un compenso equo in base alla relativa disciplina e concludendo che se così non fosse tale voce non potrebbe comunque essere oggetto di alcun ribasso.     
Le argomentazioni del Tar Sicilia, anche in considerazione del loro carattere estremamente scarno rispetto a una questione oggettivamente complessa, suscitano più di una perplessità.
Ma a ben vedere il vizio della decisione trae origine  dall’impostazione di fondo della gara, cioè dalla scelta di consentire il ribasso sulla sola voce “spese generali e oneri accessori”.
Questa scelta – che pure è accolta da molti come la soluzione mediana su cui convergere – appare di per sé poco convincente, e il caso affrontato dal Tar Sicilia ne è in qualche modo la conferma.
Occorre infatti partire da un dato. Il Decreto Ministeriale che contiene le tabelle dei corrispettivi dei servizi di ingegneria indica in maniera esplicita che tali corrispettivi si compongono di due elementi: il compenso e le spese generali e oneri accessori. Quindi entrambi questi elementi sono considerati a pieno titolo componenti costitutivi del corrispettivo da riconoscere ai prestatori dei servizi di ingegneria.
Partendo da questo dato, appare illogico e contraddittorio optare per un’applicazione parziale della normativa sull’equo compenso secondo cui una componente del corrispettivo complessivo – il compenso in senso proprio – non sarebbe oggetto di ribasso mentre l’altra componente – le spese generali e oneri accessori – sarebbe ribassabile. 
Anche in considerazione dell’incidenza significativa che la componente “spese generali e oneri accessori” ha ai fini della determinazione del corrispettivo dei servizi di ingegneria, non è chiaro perché tale componente, ai fini della determinazione del così detto equo compenso, debba ricevere un trattamento diverso dal compenso in senso proprio.
Detto altrimenti, la voce “spese generali e oneri accessori” ha un’incidenza significativa ai fini della formulazione dell’offerta, in quanto si tratta di una componente di spesa di cui il concorrente non può non tenere conto nella ricerca dell’equilibrio economico dell’offerta stessa.
Non si comprende quindi perché, a volere accedere alla tesi secondo cui l’equo compenso debba trovare applicazione anche ai contratti pubblici, questa tesi debba poi essere parzialmente corretta consentendo il ribasso su una componente del corrispettivo (spese generali e oneri accessori) che lo stesso legislatore ha ritenuto tutt’altro che irrilevante nella determinazione del compenso ritenuto equo.
Si tratta di una soluzione il cui fondamento giuridico è difficilmente identificabile, risultando piuttosto una soluzione di mediazione che risponde a logiche di opportunità ma che appunto non trova conforto in argomentazioni giuridiche.  
La vicenda affrontata nella sentenza in commento offre un esempio emblematico delle contraddizioni insite in questa soluzione. L’aggiudicatario ha infatti offerto un ribasso pari al 100% delle spese generali e oneri accessori, rinunciando quindi totalmente a questa componente del corrispettivo. Ma è irragionevole ipotizzare che per lo svolgimento delle prestazioni il concorrente non debba sopportare alcun esborso a titolo di spese generali e oneri accessori.
Ciò implica, in termini molto pragmatici, che nella sostanza – anche se non nella forma – l’azzeramento delle spese generali e oneri accessori viene a inficiare anche il principio della non ribassabilità del compenso in senso proprio.
In una logica imprenditoriale compenso in senso proprio e spese generali e oneri accessori concorrono entrambi – sia pure in misura diversa – all’economicità dell’offerta. Se si rinuncia totalmente a queste ultime, anche l’altro elemento viene in qualche modo a essere inficiato. In sostanza, il ribasso sulle spese generali e oneri accessori – o addirittura l’azzeramento, come nel caso di specie – significa che il corrispettivo complessivo risulta inferiore a quello definito dalla normativa sull’equo compenso, che fa riferimento alle tabelle ministeriali. Il compenso che risulta è quindi equo, ma “fino a un certo punto”.
In definitiva, la scelta mediana di consentire il ribasso sulle sole spese generali e oneri accessori appare più il risultato della ricerca di un equilibrio tra interessi contrapposti che fondata su valide ragioni giuridiche. Ma se si ragiona solo in termini di compromesso, c’è il rischio concreto che i problemi operativi non trovino soluzione soddisfacente, continuando ad alimentare il dibattito e – quel che è peggio – possibili occasioni di contenzioso. 

La ratio dell’equo compenso


Come si ricava dall’analisi complessiva svolta, la questione dell’applicabilità dell’equo compenso alla disciplina dei contratti pubblici dà spazio a una molteplicità di argomentazioni contrapposte.
Gli interpreti, gli operatori e anche la giurisprudenza si confrontano su tesi opposte e, come spesso succede, con argomentazioni giuridiche variamente articolate, e più meno raffinate.
Probabilmente, se si vuole trovare una bussola in questo labirinto, occorre tornare alla ratio della legge sull’equo compenso.
In estrema sintesi, tale ratio va individuata nella tutela del professionista in quanto “contraente debole” a fronte di un “committente forte”. Questa ratio appare confermata anche da alcuni aspetti formali contenuti nella legge 49, che in questa ottica divengono anche sostanza.
Ci si riferisce al richiamo al contratto d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile e alla nozione di convenzione – piuttosto che al singolo contratto – che il legislatore utilizza per delimitare  l’ambito di applicazione della disciplina sull’equo compenso. Elementi che rafforzano l’idea sottesa a tale disciplina, e cioè che la stressa voglia tutelare il singolo professionista che presta la sua opera intellettuale in un quadro regolatorio in cui è sprovvisto di adeguate protezioni nei confronti di un committente che può a sua discrezione imporre le condizioni economiche delle prestazioni da rendere.
E’ molto difficile sostenere che questa sia la situazione in cui ci si trova nel caso in cui l’affidamento del contratto discenda dallo svolgimento di una gara, cioè di un libero confronto concorrenziale tra più operatori. Che, a ben vedere, è la ragione ultima per la quale lo svolgimento di una procedura ad evidenza pubblica viene ordinariamente considerato incompatibile  – salvo casi del tutto residuali – con l’imposizione di prezzi o tariffe minime.
Se quindi si pone la ratio della legge sull’equo compenso al centro della questione, si può ragionevolmente concludere che la stessa non possa trovare applicazione nella materia dei contratti pubblici, se non si vogliono ledere i principi generali di concorrenzialità e trasparenza che sono alla base della relativa disciplina.

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