Il fatto oggetto del giudizio e la rimessione alla Corte Costituzionale
La vicenda che ha condotto alla pronuncia della Corte Costituzionale trae origine dal ricorso proposto dal secondo in graduatoria avverso l’aggiudicazione ad altro operatore di una procedura di gara indetta dal Comune di Latiano. Successivamente alla proposizione del ricorso, ottenuta l’evasione integrale della propria istanza di accesso alla documentazione della prima classificata, il ricorrente ha proposto motivi aggiunti impugnando i medesimi atti già impugnati con il ricorso, per motivi nuovi, emersi dall’esame dei documenti consegnati in sede di accesso; i motivi aggiunti sono stati notificati entro il termine di 30 giorni dalla data dell’accesso.
Entrambe le controparti in giudizio ne hanno eccepito la tardività, facendo valere quanto previsto dall’art. 120, comma 5 c.p.a. che impone la proposizione dell’atto di motivi aggiunti entro il termine di “trenta giorni, decorrente … dalla ricezione della comunicazione di cui all’articolo 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”; termine già decorso nel momento in cui i motivi aggiunti erano stati notificati.
Il TAR leccese, affermando di non poter superare in via interpretativa il contrasto fra questa norma e il diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione, ha sollevato d’ufficio la questione di legittimità costituzionale, ritenendo che il codice del processo amministrativo, nel momento in cui equipara il termine per la proposizione dei motivi aggiunti a quello per la proposizione del ricorso, impedisce di fatto la tutela giurisdizionale della parte ricorrente avverso i vizi di legittimità del provvedimento di aggiudicazione emergenti dagli atti e dai documenti conosciuti successivamente.
Il Giudice rimettente, pur premettendo di non ignorare che la giurisprudenza amministrativa ha nel tempo tentato di individuare soluzioni volte a superare le numerose criticità scaturenti dall’attuale formulazione dell’art. 120 c.p.a. sotto questo profilo, ha ritenuto che tali operazioni ermeneutiche fossero “eccessivamente estensive” rispetto al – molto meno elastico – tenore letterale del comma 5 dell’art. 120 (che non ammette eccezioni nel prevedere che ricorso e motivi aggiunti vadano proposti entro 30 giorni dalla comunicazione ex art. 79 del vecchio codice) e all’inevitabilità dei correlati e definitivi effetti preclusivi/decadenziali, qualora tale termine non venga rispettato.
L’ordinanza con la quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale ha individuato un ulteriore ostacolo alla possibilità di fornire un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma nel fatto che il comma 5 dell’art. 120 contiene tuttora il riferimento all’art. 79 del d.lgs. n. 163/2006, norma oramai abrogata da più di 5 anni e non riprodotta negli stessi termini nel corrispondente art. 76 del nuovo codice, nel quale non è presente l’accesso agli atti cd. “accelerato” di cui al comma 5-quater del previgente art. 79, e che prevedeva l’obbligo per le amministrazioni di mettere a disposizione tutti i documenti di gara entro 10 giorni dalla comunicazione di aggiudicazione a tutti i concorrenti che ne avessero fatto richiesta
Ritenendo pertanto che l’unica interpretazione possibile della norma (cioè quella per cui sia il ricorso, che i motivi aggiunti, devono essere proposti nei 30 giorni dalla ricezione della comunicazione di aggiudicazione, a pena di decadenza) fosse incompatibile con il diritto di difesa poiché non ammette deroghe, neppure nelle ipotesi in cui la conoscenza tardiva degli atti non è dovuta a inerzia colposa dell’avente titolo, bensì ad altri fattori da esso indipendenti (ad esempio, la classica inerzia dell’amministrazione ad evadere l’istanza), il TAR salentino ha rimesso la questione alla Corte costituzionale.
La decisione della Corte
La Consulta ha negato l’incompatibilità costituzionale della norma, sposando in pieno l’approdo cui era già giunta lo scorso anno l’Adunanza Plenaria con la pronuncia n. 12 del 2020.
Il “cuore” del ragionamento della Corte Costituzionale, che era già stato anche quello della pronuncia della Plenaria, riguarda la ritenuta “analogia” tra il contenuto dell’ex art. 79, comma 5-quater (oggi abrogato) e l’attuale art. 76, comma 2, che conterrebbero entrambi un termine per consentire l’accesso: 10 giorni dall’aggiudicazione, nel 79, 15 giorni dalla richiesta, nel 76; sarebbe quindi possibile, a dire della Corte, “ricondurre nel cerchio delle interpretazioni compatibili con la lettera della legge, secondo il contesto logico-giuridico al quale pertiene la norma, la lettura che impone una dilazione temporale, correlata all’esercizio dell’accesso nei quindici giorni previsti attualmente dall’art. 76 del vigente “secondo” cod. dei contratti pubblici (e, in precedenza, ai dieci giorni indicati invece dall’art. 79 del “primo” cod. contratti pubblici)”.
In altri termini: siccome l’art. 76 prevede attualmente che l’Amministrazione debba evadere la richiesta di informazioni del concorrente entro 15 giorni dalla richiesta (non limitando tale facoltà a solo accesso richiesto a valle dell’aggiudicazione, bensì anche a tutte le ulteriori richieste formulate in ogni altro momento della procedura di gara), risulta legittima una lettura dell’art. 120, comma 5 c.p.a. che, nell’agganciare la proposizione dei motivi aggiunti alla comunicazione ex art. 79 del vecchio codice, possa intendersi riferita al nuovo art. 76, potendosi quindi ritenere che il termine iniziale per proporre motivi aggiunti decorra da quello in cui l’Amministrazione riscontri l’istanza ex art. 76, comma 2, consentendo l’accesso ai documenti richiesti.
Come aveva già detto l’Adunanza Plenaria “le incongruenze conseguenti al mancato coordinamento del ‘secondo codice’ con l’art. 120, comma 5, del c.p.a. si possono allora superare ritenendo che non vi è stato il necessario coordinamento del richiamo effettuato dal medesimo comma 5: il riferimento alla formalità previste dall’art. 79 del ‘primo codice’ deve ora intendersi effettuato alle formalità previste dall’art. 76 del ‘secondo codice’”.
Il TAR salentino è stato pertanto invitato a conformarsi alla giurisprudenza maggioritaria (poi compendiata nella citata pronuncia della Plenaria, che non era ancora stata adottata alla data della rimessione alla Corte Costituzionale) in quanto l’interpretazione da essa fornita è conforme al parametro costituzionale.
Certezze, dubbi e aspettative
La pronuncia della Corte Costituzionale, salvaguardando l’assetto attuale e quanto già affermato circa un anno fa dall’Adunanza Plenaria, intende dare continuità e stabilità all’interpretazione oramai “accreditata” in giurisprudenza, che non subisce pertanto scossoni né revirement.
A valle delle due pronunce, e senza presunzione di esaustività, si possono quindi esemplificare tre situazioni relative al rapporto decorrenza termini/impugnazione:
– il ricorso va proposto entro 30 giorni dalla comunicazione di aggiudicazione ex art. 76, a condizione che l’Amministrazione abbia adempiuto ai propri doveri di trasparenza e pubblicità, fornendo al concorrente tutte le informazioni necessarie alla tutela dei propri interessi;
– tale termine è incrementato di – massimo – 15 giorni (ai sensi dell’art. 76, comma 2), qualora il ricorrente abbia tempestivamente chiesto alla Stazione appaltante di effettuare l’accesso, e questa non l’abbia consentito;
– le informazioni previste, d’ufficio o a richiesta, dall’art. 76 del d.lgs. n. 50 del 2016, nella parte in cui consentono di avere ulteriori elementi per apprezzare i vizi già individuati ovvero per accertarne altri, consentono la proposizione dei motivi aggiunti, nei 30 giorni dalla relativa conoscenza.
Data la regola generale, residuano comunque dei dubbi.
Il primo, è che l’art. 76, comma 2 non ripropone la disciplina dell’accesso “semplificato” contenuta dell’art. 79, comma 5-quater: mentre quest’ultimo prevedeva l’obbligo per l’Amministrazione di consegnare al concorrente tutti gli atti richiesti, nel termine perentorio di 10 giorni dalla comunicazione di aggiudicazione e su semplice richiesta, il nuovo art. 76 comma 2 non prevede alcun accesso “veloce” ma si limita a fare un rinvio generale alla disciplina dell’accesso ex artt. 22 e ss. della L. n. 241/1990 (con applicazione dei relativi termini e formalità).
Inoltre, l’art. 76, comma 2 nell’introdurre il termine dei 15 giorni (poi mutuato da Plenaria e Corte Costituzionale, oltre che già dalla giurisprudenza amministrativa di merito) non fa nessun riferimento al fatto che detto termine sia quello per consentire l’accesso, bensì esso è quello entro il quale vanno comunicate “le caratteristiche e i vantaggi dell’offerta selezionata e il nome dell’offerente cui è stato aggiudicato l’appalto o delle parti dell’accordo quadro”.
Non da ultimo, l’abrogazione dell’accesso “semplificato” ex art. 79, comma 5-quater e il ritorno al sistema della L. n. 241/1990, con applicazione del termine generale di 30 giorni, nonché il diritto del controinteressato di opporsi all’accesso degli altri concorrenti ex art. 3 del d.P.R. 184/2006, complicano ancora di più la questione, imponendo nella maggior parte dei casi l’aggravio procedimentale di dover proporre “ricorsi al buio” e successivi motivi aggiunti (circostanze che hanno comportato un aumento esponenziale sia del contenzioso, incluso quello per l’accesso, sia di costi di giustizia per la moltiplicazione dell’onere di versamento del contributo unificato).
Temi, questi, che restano aperti anche dopo le due richiamate pronunce.
Che la questione dei termini per proporre ricorso e, ancora prima, quello dell’accesso agli atti di gara, sia fonte di grosso dibattito, è testimoniato anche dalla semplice constatazione che sullo stesso argomento siano state chiamate ad intervenire, nell’arco di poco più di un anno, il massimo organo della giustizia amministrativa, nonché ora anche la Corte Costituzionale.
Leggendo entrambe le pronunce, si rileva quanto magmatico sia il tema della decorrenza del termine per proporre ricorso (ma lo stesso dicasi per i motivi aggiunti), e di quanto variegate siano le soluzioni proposte dalla giurisprudenza per tentare di ricondurre a unità una normativa – l’art. 120, comma 5 – che contiene uno stridente errore di rinvio, colpevolmente mai emendato nonostante gli innumerevoli interventi compiuti sul Codice sin da pochi mesi dopo la sua approvazione nell’aprile del 2016.
In questo panorama, l’ordinanza di rimessione del TAR Puglia, che ad una prima lettura potrebbe a sembrare quasi manichea, con il proprio rigido appiattimento sul dato letterale, con conseguente “rifiuto” della possibilità di fornire una lettura sostanziale della norma aderendo ad un filone giurisprudenziale oramai ben consolidato (come alla fine è stata invitata a fare dalla Corte Costituzionale), appare a ben vedere piuttosto come un tentativo di sollecitare un’operazione di maquillage normativo mediante il ricorso a chi, per definizione, è istituzionalmente votato a trovare composizione tra le aporie del sistema legislativo.
Medesimo tentativo operato anche dall’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 12/2020 ove, rendendosi lucidamente conto di come i Giudici amministrativi (le cui variegate pronunce erano convogliate nei filoni che avevano poi condotto alla rimessione ex art. 99 c.p.a.) stessero compiendo di fatto le veci di un legislatore “disattento”, aveva trasmesso la propria pronuncia alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per sollecitare un intervento volto ad emendare le evidenti discrasie del sistema: “Nel decidere sui quesiti sollevati dall’ordinanza di rimessione, in applicazione dell’art. 58 del regio decreto n. 444 del 1942 ritiene di dover trasmettere copia della presente sentenza alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, per la doverosa segnalazione di tale mancato coordinamento, affinché sia disposta una modifica legislativa ispirata alla necessità che vi sia un ‘sistema di termini di decadenza sufficientemente preciso, chiaro e prevedibile’, disciplinato dalla legge con disposizioni di immediata lettura da parte degli operatori cui si rivolgono le direttive dell’Unione Europea”.
Nessuna delle sollecitazioni volte a suggerire una definitiva composizione dell’assetto attuale ha trovato una sponda in sede legislativa (neppure il “gesto forte” dell’Adunanza Plenaria ha, per ora, sortito alcun effetto), lasciando tuttora inascoltata la necessità, avvertita da tutti gli attori del sistema, di una normativa chiara e univoca, la cui pregnanza era già stata ricordata anche dalla Corte di Giustizia Europea, che ha a più riprese rilevato come gli Stati membri, Italia inclusa, abbiano “l’obbligo di istituire un sistema di termini di decadenza sufficientemente preciso, chiaro e prevedibile, onde consentire ai singoli di conoscere i loro diritti ed obblighi” (CGUE, C-222/86; CGUE, C-300/11; CGUE, C-54/18).
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