I centri antiviolenza (CAV) erogano servizi di prevenzione e accoglienza alle donne che vogliono fuoriuscire da situazioni di violenza maschile, insieme alle/i loro figlie/i minori, garantendo loro protezione e supporto adeguati e sostenendo percorsi personalizzati, a titolo gratuito, nel rispetto della riservatezza e dell’anonimato, senza praticare alcuna discriminazione e utilizzando una metodologia di accoglienza basata sulla relazione tra donne.
I CAV, inoltre, intervengono sulle dinamiche strutturali da cui origina la violenza maschile con attività di prevenzione sul territorio, contribuiscono alla formazione rivolta a chi lavora nei servizi generali e partecipano alle reti territoriali antiviolenza. Le case rifugio, invece, sono strutture dedicate a indirizzo riservato o segreto, che ospitano a titolo gratuito le donne e le/i loro figlie/i minori che si trovano in situazioni di violenza e che necessitano di allontanarsi per questioni di sicurezza dalla loro abitazione usuale.
La gestione di tali servizi è spesso affidata dalle pubbliche amministrazioni – soprattutto, ma non solo, dagli enti locali – a soggetti privati tramite gare d’appalto. Talvolta gli affidamenti avvengono anche con la co-progettazione ai sensi dell’art. 55 del Codice del Terzo settore (d.lgs. 3 luglio 2017, n. 117), che però può essere legittimamente impiegata solo quando vi sia effettivamente l’esigenza di progettare il servizio, come accade quando si attiva un centro nuovo oppure si intende ripensare radicalmente l’impostazione di un centro esistente.
In ogni caso, l’affidamento della gestione dei centri antiviolenza e delle case rifugio per le donne in fuoriuscita da situazioni di violenza è caratterizzata da una disciplina specifica, che si aggiunge al Codice dei contratti pubblici e alla normativa di settore dei servizi sociali e volta a garantire l’adozione di un corretto approccio al fenomeno della violenza di genere. Tale disciplina considera la peculiarità del servizio in questione, con una particolare attenzione alla metodologia applicata e alla formazione delle operatrici che vengono in contatto con le utenti. È dunque particolarmente importante che le stazioni appaltanti che bandiscono le gare per la gestione di questi servizi conoscano la relativa disciplina speciale, ma anche che ne comprendano le ragioni di fondo, per applicarla in modo corretto.
Come è facilmente intuibile, un aspetto che risulta particolarmente delicato e rilevante è quello dei requisiti dei soggetti privati che si candidano a gestire i centri antiviolenza e le case rifugio.
Infatti, l’art. 5-bis, co. 3, d.l. 14 agosto 2013, n. 93 (convertito con modificazioni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119, è molto netto nel richiedere che i soggetti privati che, anche d’intesa con gli enti locali, gestiscono i centri antiviolenza, debbano “operare nel settore del sostegno e dell’aiuto alle donne vittime di violenza”, aver “maturato esperienze e competenze specifiche in materia di violenza contro le donne” e utilizzare “una metodologia di accoglienza basata sulla relazione tra donne, con personale specificamente formato sulla violenza di genere” e della cui formazione deve far parte “il riconoscimento delle dimensioni della violenza riconducibili alle diseguaglianze di genere”.
La ragione di tale previsione è che la gestione di un CAV è non è assimilabile allo svolgimento di qualunque altro servizio sociale e deve essere affidata a soggetti che non abbiano una generica esperienza nei servizi sociali, ma che – a tutela delle utenti del servizio – siano in grado di garantire la compatibilità dell’approccio metodologico alla violenza di genere con la Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, adottata a Istanbul l’11 maggio 2011 e ratificata dall’Italia con l. 27 giugno 2013, n. 77) e con le altre fonti in materia, che indicano il lavoro in ottica fortemente orientata al genere come condizione necessaria per la gestione dei servizi antiviolenza, oltre che la centralità dell’empowerment come pratica di libertà e assunzione di responsabilità.
La finalità di evitare che la gestione dei centri antiviolenza sia affidata a soggetti che gestiscono in generale servizi sociali di vario tipo implica, sul piano del possesso dei requisiti, che l’esperienza nella gestione di altri servizi sociali non possa essere considerata fungibile con quella richiesta per la gestione di quelli volti al contrasto della violenza di genere, gestione caratterizzata da una specifica metodologia dell’accoglienza basata sulla relazione tra donne e sul riconoscimento delle dimensioni della violenza riconducibili alle diseguaglianze di genere. Basti pensare che nei servizi in esame vige l’assoluto divieto dell’utilizzo delle tecniche di mediazione familiare, impiegate invece in altre strutture di accoglienza.
Anche la giurisprudenza amministrativa non ha mancato di riconoscere nella metodologia dei centri antiviolenza il tratto distintivo dei soli servizi di contrasto della violenza di genere e non anche di altri servizi socioassistenziali (Cons. Stato, Sez. V, 25 agosto 2023, n. 7947) e di chiarire che dalla normativa di settore “emerge la specificità delle competenze che il legislatore richiede per la gestione di un centro antiviolenza” e che, con riferimento ai requisiti di partecipazione, “l’attività di gestione del centro antiviolenza non sia né equiparabile né assimilabile alle altre attività socio- assistenziali” (TAR Lazio, Roma, Sez. II bis, 29 giugno 2024, n. 13128).
Attualmente, i requisiti minimi per la gestione dei centri antiviolenza e delle case rifugio, come si è visto posti a presidio di un corretto approccio metodologico alla violenza di genere, sono disciplinati dall’Intesa della Conferenza unificata n. 146/CU del 14 settembre 2022, che sostituisce sul punto la precedente del 27 novembre 2014. Entrambe le intese sono state recepite da una molteplicità di leggi regionali e da regolamenti di enti locali. Del resto, ai sensi del d.P.C.M. 24 luglio 2014, il rispetto di tali requisiti da parte dei gestori è necessario affinché gli enti locali possano accedere alla ripartizione dei fondi per il sostegno ai centri antiviolenza e l’art. 14 dell’intesa del 2022 prevede espressamente che il Governo, le Regioni e le autonomie locali debbano garantire il rispetto dei requisiti previsti nei loro atti e nella ripartizione delle risorse.
Rispetto al testo precedente, che non a caso era stato reso più stringente sul punto da alcune normative regionali, l’intesa del 2022 risolve finalmente alcune problematiche che erano state da tempo sottolineate da chi operava nel settore.
La nuova intesa, infatti, accanto a una serie di requisiti strutturali e organizzativi, richiede che i soggetti gestori dei centri antiviolenza e delle case rifugio, debbano (in via cumulativa):
– avere nel loro statuto da almeno cinque anni gli scopi del contrasto alla violenza maschile e di genere, del sostegno, della protezione e del supporto delle donne che hanno subito o subiscono violenza e dei/delle loro figli/e e dell’empowerment;
– perseguire statutariamente, in modo esclusivo o prevalente, le attività di prevenzione e contrasto alla violenza maschile, valutate anche in relazione alla consistenza percentuale delle risorse destinate in bilancio;
– possedere una consolidata e comprovata esperienza quinquennale consecutiva in attività contro la violenza maschile sulle donne (art. 1, co. 7).
In particolare, la precisazione che il contrasto alla violenza maschile e di genere debba essere presente nello statuto dei soggetti che si candidano a gestire i centri da almeno cinque anni è chiaramente volta evitare inserimenti nello statuto delle finalità richieste “dell’ultimo minuto”.
In secondo luogo, al fine di dare concretezza alla richiesta che le attività di prevenzione e contrasto alla violenza maschile siano perseguite statutariamente “in modo esclusivo o prevalente”, si inserisce il parametro di valutazione della consistenza percentuale delle risorse destinate in bilancio.
Tale ultimo requisito è chiaramente volto ad evitare che gli enti gestori dei centri antiviolenza siano soggetti che operano in generale sul mercato dei servizi sociali e socioassistenziali e che per essi la gestione dei centri antiviolenza sia solo una fra le tante attività svolte.
L’intesa prevede anche che, con riferimento a questi particolari servizi, sia esclusa la possibilità di fare ricorso all’istituto dell’avvalimento.
Nel 2024, con un’ulteriore intesa della Conferenza unificata si è istituito un tavolo tecnico per modificare entro 18 mesi l’intesa del 2022 (n. 15/CU del 25 gennaio 2024).
La speranza è che – a tutela dei principi sopra richiamati – i requisiti per i soggetti gestori dei CAV non vengano annacquati.
A ogni modo, è necessario che le stazioni appaltanti, nel costruire le procedura di gara per selezionare gli enti gestori dei centri antiviolenza e delle case rifugio, rispettino il quadro normativo vigente e diano forma a tutta la documentazione di gara nell’ottica di rispettare la metodologia che deve necessariamente caratterizzare questi servizi.
Gli appalti pubblici per la gestione dei centri antiviolenza
A cura di Aurora Donato
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