Con sentenza n. 109 del 2021, essendo stata chiamata a fornire una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni di cui all’art. 240 – bis del D.Lgs. n. 163/2006, la Consulta ha reso una pronuncia che manifesta una diretta incidenza nell’ambito della tutela sostanziale e processuale dei diritti dell’appaltatore nella fase di esecuzione del contratto pubblico di affidamento.
Pur avendo ad oggetto una norma speciale “superata” stante la sostituzione del “vecchio codice appalti”, intervenuta a seguito dell’entrata in vigore del D. Lgs. n. 50 del 2016, la statuizione in parola presenta incidenze connotate da attualità, ritenuta la sopravvivenza di contratti stipulati sotto l’egida della disciplina in commento e la sussistenza, nell’ambito della casistica dettata dal diritto vivente, di accese diatribe circa i limiti di operatività della previsione esaminata. Su tali premesse, prima di riferire le questioni trattate dalla Corte, tracciamo per ampie linee il quadro fattuale e normativo in cui si innesta il caso concreto rimesso all’attenzione del Giudice della Consulta.
Con ordinanza del 13 maggio 2019, iscritta al registro ordinanze n. 171 del 2019, il Tribunale ordinario di Lecco, prima sezione civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 41 e 97 della Costituzione, censure di legittimità costituzionale quanto al disposto di cui all’art. 240-bis, comma 1, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e ss.mm., nella parte in cui prevede che «[l]’importo complessivo delle riserve non può in ogni caso essere superiore al venti per cento dell’importo contrattuale». Il rimettente esponeva che l’Impresa, parte attrice nel processo principale, avesse fatto valere in giudizio sei riserve iscritte nei registri di contabilità e confermate in sede di sottoscrizione del conto finale in data 17 giugno 2015, per un ammontare complessivo di euro 473.751,18. Tali riserve – riferisce il giudice a quo – erano state iscritte, ai sensi degli artt. 190 e 191 del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207, nell’ambito di un contratto di appalto di lavori stipulato un Comune, in data 15 marzo 2013, per un corrispettivo, calcolato a misura, di euro 558.751,65, oltre IVA e oneri di sicurezza.
Il Tribunale di Lecco precisava che il Comune, parte convenuta, non aveva promosso il procedimento di accordo bonario di cui all’art. 240 del d.lgs. n. 163 del 2006 e che, convenuto in giudizio dall’Impresa, avesse eccepito l’inammissibilità delle riserve ai sensi dell’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici. In punto di rilevanza, il giudice a quo osservava che, all’esito della consulenza tecnica d’ufficio relativa alle riserve iscritte, le stesse sarebbero risultate riconoscibili per la somma di euro 109.236,41, vale a dire per una cifra inferiore al venti per cento dell’importo contrattuale. Tuttavia – proseguiva il rimettente – poiché quanto dovrebbe riconoscersi all’impresa si ricavava da riserve registrate dopo che in contabilità la stessa aveva provveduto ad iscriverne altre, per un ammontare che aveva già raggiunto il limite del venti per cento dell’importo contrattuale, sarebbe preclusa la possibilità di accertare nel merito quelle annotate successivamente al superamento della soglia imposta dalla norma censurata. In sintesi, il giudice a quo concludeva ritenendo che l’unica interpretazione dell’art. 240-bis, comma 1, cod. contratti pubblici, conforme alla sua lettera ed alle intenzioni del legislatore, «sembra essere quella che attribuisce all’appaltatore la legittimazione ad iscrivere riserve solo fino alla concorrenza di un quinto dell’importo contrattuale» e non quella che riferisce tale soglia all’importo complessivo che in concreto può essere riconosciuto.
Da una simile interpretazione della norma derivava l’inevitabile conseguenza che solo le prime tre riserve sarebbero state ammissibili, mentre sarebbe risultata preclusa al giudice la disamina e l’accertamento nel merito di quelle successivamente iscritte, indipendentemente dalla effettiva fondatezza delle pretese ivi espresse dall’Impresa. In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo rilevava che «anche in un’ottica di bilanciamento tra principi costituzionali, le esigenze di contenimento della spesa pubblica non possono giustificare la creazione di una posizione di così smaccato privilegio per la stazione appaltante, alla quale viene consentito di liberarsi dalle proprie responsabilità non solo in caso di eventi sopravvenuti imprevedibili, ma anche in caso di possibili condotte illegittime o inadempienti, tutte indistintamente ricondotte alla categoria del rischio di impresa di cui l’appaltatore dovrebbe farsi carico».
Così motivando, il Tribunale di Lecco ravvisava un contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., poiché l’art. 240-bis, comma 1, andrebbe a stravolgere l’equilibrio negoziale in favore di una sola delle parti del contratto determinando «sul piano sostanziale, una limitazione irragionevole delle pretese patrimoniali dell’appaltatore e, sul piano processuale, una compressione altrettanto inspiegabile del diritto d’azione». Altresì, il medesimo Tribunale rilevava l’illegittimità costituzionale della norma in relazione all’art. 41 Cost. «concretandosi la disposizione in un’ingiustificata limitazione alla libertà d’impresa»: l’imprenditore sarebbe arbitrariamente costretto a sopportare anche il rischio di pregiudizi del tutto estranei alla sua sfera di controllo, venendo meno «qualsiasi possibile proporzionalità tra l’ablazione dei diritti dell’appaltatore e l’intento del legislatore di arginare la proliferazione delle riserve per contenere la spesa pubblica».
Infine, il giudice a quo reputava il citato art. 240-bis non conforme all’art. 97 Cost., in quanto la norma censurata incentiverebbe la deresponsabilizzazione dei funzionari pubblici, in contrasto con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Soprassediamo per esigenze di sintesi dal descrivere l’articolata trattazione processuale intervenuta in sede di giudizio innanzi alla Corte Costituzionale, subito rilevando come, per quanto deciso dalla stessa “Nel merito, le questioni non sono fondate, nei termini di seguito illustrati”. Ebbene, i Giudici della Consulta, nel concludere in tal senso, compiono un preliminare inquadramento storico della disposizione censurata, rilevando come l’art. 240-bis sia stato introdotto nel codice dei contratti pubblici, con il decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106.
La ratio sottesa a detta integrazione, secondo la Corte, sarebbe tratta dalla stima di un dato casistico di valenza negativa, registrato nella prassi afferente l’esecuzione dei contratti pubblici di affidamento: snaturandone la funzione, le Imprese si sarebbero avvalse dell’istituto delle riserve “al fine di avanzare pretese non giustificate dal contrattuale o non conformi alle previsioni legali sulle procedure che danno accesso a possibili modifiche dell’originario accordo” attraverso riconoscimenti operati in sede di “accordo bonario, in difformità dal chiaro dettato normativo degli artt. 132 cod. contratti pubblici e 161, commi 1, 2 ed 11 del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2010, n. 207”. La lettura costituzionalmente orientata e, dunque, corretta delle disposizioni di cui all’art. 240-bis, comma 1, passerebbe perciò attraverso la preminente tutela degli interessi riconducibili agli artt. 81 e 97 Cost. (sotto il profilo del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione) nonché, indirettamente, attraverso la tutela della concorrenza, cosicché la norma di settore assumerebbe rilievo di costituzionalità in quanto detterebbe uno strumento utile a porre un freno al “l’aggiudicazione di appalti a favore di imprese che, confidando nella possibilità di conseguire, grazie agli accordi bonari, guadagni aggiuntivi e non dovuti, proponessero offerte notevolmente ribassate”. E tanto, secondo la Corte, anche ove si tenga in conto l’insieme delle disposizioni disciplinanti la fase di esecuzione della commessa e, in particolare, la poliedricità delle censure riferibili attraverso le riserve.
Pur “salvando” la portata dispositiva limitante della norma, la Corte ha comunque compiuto – ed è questo il dato che appare di più importante rilievo – una lettura ermeneutica non del tutto estensiva della stessa, aprendo “finestre” di non poca ampiezza nell’apparente generale portata limitativa della previsione esaminata. Anzi tutto, pur non spendendosi in affermazioni nette, la Consulta non trascura di porre una nota sulla collocazione sistematica dell’art. 240 -bis, ossia l’ambito di disciplina dell’accordo bonario (e dunque, si badi, non delle riserve né del processo civile ordinario). Al contempo, con ciò non tralasciando di sfiorare un ulteriore “tema caldo” per gli operatori di settore, la Corte ha precisato che il nuovo codice dei contratti pubblici (decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50) ha posto un limite diverso non solo nell’importo (il quindici per cento e non il venti per cento) ma anche quanto all’ambito di operatività della soglia, rilevante “solo quanto alla possibilità di definire le riserve tramite l’accordo bonario” (art. 205, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016).
Ora, fissati i suesposti presupposti, i Giudici della Consulta hanno precisato che, al netto di qualsiasi distorsione del sistema, la reale finalità dell’istituto della riserva si estrinseca secondo una traccia bidirezionale, i cui benefici, ad onor del vero, superano il mero interesse creditizio dell’appaltatore piuttosto mirando a consentire il conseguimento di un vantaggio per la Committente, attraverso un “monitoraggio costante, da parte della stazione appaltante, sull’esecuzione del contratto”. La norma, dunque, non può essere interpretata nel senso di escludere la possibilità di far valere le riserve iscritte oltre la soglia legale poiché, a voler così ragionare, risulterebbero lesi gli interessi sopra richiamati e, soprattutto, si pregiudicherebbe il mantenimento della necessaria trasparenza nella fase di esecuzione del contratto a discapito della Committente.
Negare l’iscrizione delle riserve e l’azionabilità delle stesse oltre il limite del venti per cento dell’importo contrattuale, del resto, determinerebbe una disincentivazione dell’appaltatore dall’annotare le proprie doglianze cosicché la Committenza non godrebbe più della possibilità di conoscere l’evoluzione della commessa in concreto, in termini di criticità e maggiori oneri emersi, con l’effetto che non avrebbe modo di valutare la sussistenza, tra l’altro, dei presupposti legittimanti l’esercizio di un recesso dal rapporto negoziale (anche – e non solo – ove si considerino i rimedi concessi normativamente in ipotesi di superamento del quinto d’obbligo); d’altra parte – e qui la Corte si esprime su questioni aventi implicazioni concrete di grande rilievo – sarebbe innegabile una tutela giudiziale delle ragioni dell’esecutore, a prescindere dall’istituto della riserva, dal momento che, all’insorgere di un evento dannoso significativo per l’ordinamento e, dunque, come tale meritevole di tutela, sarebbero comunque azionabili gli strumenti ordinari di garanzia previsti dal legislatore, posto che “la legge lo prevede anche per fatti suscettibili di evidenziare inadempimenti della stazione appaltante e questi ultimi, ove di non scarsa importanza, giustificherebbero comunque pretese anche risarcitorie, ex art. 1453 del codice civile, a prescindere dall’apposizione di riserve (ex multis, Corte di cassazione, terza sezione civile, ordinanza 6 maggio 2020, n. 8517; Corte di cassazione, prima sezione civile, ordinanza 5 settembre 2018, n. 21656 e sentenza 3 novembre 2016, n. 22275). Ed infatti, precisano i Giudici della Consulta, “i rimedi contrattuali di natura risolutoria, e le correlate azioni anche risarcitorie, non sono, secondo un orientamento costante del diritto vivente, subordinati al rispetto dell’onere di iscrivere riserve” ragion per cui “ove la soglia del venti per cento venisse superata con richieste ascrivibili a inadempimenti della stazione appaltante che, nel complesso, evidenziassero, da parte del committente, un inadempimento di non scarsa importanza, sarebbe certamente consentita, oltre alla risoluzione del contratto, anche l’azione risarcitoria per illecito contrattuale” (Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenze 5 settembre 2018, n. 21656; 3 novembre 2016, n. 22275; 17 settembre 2014, n. 19531; 11 gennaio 2006, n. 388; 4 febbraio 2000, n. 1217; 17 marzo 1982, n. 1728); a ancora: “Parimenti, le pretese iscritte a riserva relativamente a sopravvenienze oggettive potrebbero, nel caso concreto, dar luogo ad una risoluzione del contratto ai sensi dell’art. 132 cod. contratti pubblici, così come il concorrere di plurime sopravvenienze potrebbe legittimare un’azione di risoluzione del contratto riconducibile, previa dimostrazione dell’eccessiva onerosità sopravvenuta, all’art. 1467 cod. civ.” (ex multis, Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenze 26 gennaio 2018, n. 2047; 18 maggio 2016, n. 10165; Consiglio di Stato, sezione quarta, sentenza 19 agosto 2016, n. 3653). Irragionevole sarebbe, poi, secondo la Corte, ammettere che la rilevanza sostanziale e processuale delle doglianze lamentante in sede di riserva sia rimessa al mero ordine della loro iscrizione, dal momento che, seguendo una simile interpretazione dell’art. 240-bis, l’appaltatore si troverebbe spogliato del diritto di conoscere la fondatezza di pretese giustamente annotate solo a motivo di un ordine temporale casuale, ossia “l’ordine di annotazione delle richieste”, delineandosi così un indiscriminato e ingiusto esonero legale dalla responsabilità del Committente.
Sennonché, chiarisce la Corte, il limite di cui all’art. 240-bis, pur non potendo costituire un’ipotesi di “esonero legale” da responsabilità a vantaggio dell’Amministrazione, trova comunque giustificazione alla luce dei già richiamati interessi di rango costituzionale tutelati dalla norma censurata (trasparenza, buon andamento, imparzialità) e tanto poiché, si badi, la soglia del venti per cento non incide sul momento dell’iscrizione o della proposizione dell’azione bensì sul riconoscimento delle spettanze richieste e, ad ogni modo, sempre che non sia riscontrabile una condotta dolosa o gravemente colposa imputabile alla Committente, “non potendo l’esonero legale estendersi, nel rispetto dei principi costituzionali, all’inadempimento doloso o gravemente colposo, la relativa azione nei confronti della stazione appaltante, pur soggetta all’onere dell’iscrizione a riserva” (ex multis, Corte di cassazione, prima sezione civile, sentenze 5 agosto 2016, n. 16537; 28 gennaio 2015, n. 1619; 14 febbraio 2014, n. 3548).
In sintesi: entro la soglia del venti per cento dell’importo contrattuale, qualunque pretesa dell’appaltatore può essere riconosciuta, in via bonaria o previo accertamento giudiziale; per tutte le altre riserve che eccedono la soglia, la norma censurata implica una ridefinizione del rischio oggettivo del contratto, con un suo “lieve” – così definisce la Corte – incremento, nonché un limitato esonero dalla responsabilità del committente, reso tuttavia conforme, in via ermeneutica, ai principi costituzionali (artt. 3,24 e 41 Cost.), spostandosi, di fatto, l’asticella dell’alea negoziale verso un livello di tolleranza più elevato, ovvero sino al momento in cui sia ravvisato, da parte del Committente, un contegno scientemente lesivo dei diritti dell’appaltatore o una condotta negligente o colposamente omissiva, purché grave. Escluso il dolo, la cui rilevanza interesserebbe peraltro ambiti tutt’altro che “meramente” civilistici, cercheremo ora di comprendere quale sarà la definizione di “gravità” che i Tribunali del diritto vivente riterranno di fornire e applicare. La scoperta, dunque, avverrà caso per caso.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento