Che l’intento di semplificazione della disciplina degli appalti sia in buona parte fallito è un dato oggettivo ed indiscutibile, sebbene sia contestato dai vertici dell’ANAC, che imputano alle amministrazioni appaltanti la volontà di non applicare appieno la riforma.
Un’argomentazione, quest’ultima, che a quasi tre anni dall’entrata in vigore della riforma perde ogni giorno di più peso e capacità persuasiva.
A parte che non si vede per quale ragione comuni o altre amministrazioni, tenute ed interessate a realizzare opere pubbliche presto e bene, dovrebbero “boicottare” una riforma finalizzata a velocizzare e semplificare gli iter, l’estrema diffusione tra operatori, commentatori e tra le stesse imprese della concreta esperienza operativa di un insieme di norme complicate, intricate, contraddittorie, non può non lasciare l’impressione che l’ANAC insista nella difesa di un sistema in modo isolato e, a questo punto, non del tutto ragionevole.
L’ultimo colpo che comprova quanto bizantino e complesso sia il sistema, composto da un regolamento, oltre 50 decreti ministeriali e una serie di alluvionali Linee guida, lo ha inferto il Consiglio di Stato, con la sentenza della Sez. V, 22 ottobre 2018, n. 6026, nella quale Palazzo Spada afferma che le Linee guida (nel caso di specie, le n. 2 in tema di offerta economicamente più vantaggiosa) se “non vincolanti” non possono essere prese come parametro della legittimità dell’azione della stazione appaltante.
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