Affidamenti a società in house con elevata partecipazione di capitali privati: il Consiglio di Stato fissa le condizioni

La I Sezione del Consiglio di Stato, con parere n. 2583 dell’8 novembre 2018, reso alla Regione Piemonte, ha avuto occasione di intervenire in materia di in house providing

Aldo Iannotti della Valle 12 Novembre 2018
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La I Sezione del Consiglio di Stato, con parere n. 2583 dell’8 novembre 2018, reso alla Regione Piemonte, ha avuto occasione di intervenire in materia di in house providing, chiarendo se ed entro che limiti possa essere consentito l’ingresso di capitali privati in una società in house e in che misura tale partecipazione possa eventualmente ostacolare l’affidamento diretto di un servizio da parte della Regione.

In breve, il Consiglio di Stato ha ritenuto ammissibile la partecipazione di capitali privati a una società in house, con conseguente ammissibilità del ricorso all’affidamento in deroga alle ordinarie procedure di evidenza pubblica (in house providing), quando a prevedere tale partecipazione privata sia una legge (non solo statale ma anche regionale), quando l’Amministrazione continui ad esercitare il controllo analogo sulla società e quando l’oggetto sociale di tale società ricada nell’esercizio delle funzioni tipiche dell’ente partecipante.

Per addivenire a tali affermazioni di principio, il Consiglio di Stato ha effettuato un ampio excursus dell’istituto dell’in house providing.

È noto che il cosiddetto in house providing consiste nell’affidamento di un appalto o di una concessione da parte di un ente pubblico in favore di una società dallo stesso controllata, in deroga alle ordinarie procedure di evidenza pubblica. Ciò avviene in virtù dello stretto rapporto intercorrente tra l’ente pubblico e la società affidataria e in presenza di specifici requisiti, dapprima individuati dalla giurisprudenza europea (Corte Giust. CE, sez. V, 18 novembre 1999, C-107/98, Teckal; Corte Giust. UE, sez. V, 8 maggio 2014, C-15/13) e nazionale (cfr. Cons. St., sez. VI, 26 maggio 2015, n. 2660; Corte cost., 20 marzo 2013, n. 46; T.a.r. Lazio, sez. II, 17 giugno 2016, n. 7032); requisiti poi cristallizzati, sia pure in modo parzialmente diverso rispetto agli iniziali approdi giurisprudenziali, dalla Direttiva 2014/24/UE (art. 12) e, infine, recepiti a livello nazionale prima dal d.lgs. n. 50/2016 (art. 5) e poi anche dal d.lgs. n. 175/2016 (art. 16).

In particolare, come chiarito dall’art. 5 del Codice dei contratti pubblici, che ricalca la formulazione dell’art. 12, Direttiva 2014/24/UE, per potersi procedere ad affidamento in house devono sussistere tutti i seguenti requisiti:

a) «l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;
b) oltre l’80 per cento delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi;
c) nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati le quali non comportano controllo o potere di veto previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata».

In presenza di detti requisiti, può legittimamente parlarsi di società in house, considerata equiparabile in tutto e per tutto ad un “ufficio interno” dell’ente pubblico che l’ha costituita. La contemporanea presenza di tutti e tre i requisiti giustifica, quindi, che si proceda ad affidamento diretto, prescindendo da una procedura di evidenza pubblica. Si tratterebbe, in sostanza, come ribadito anche dal parere, di una vera e propria erogazione di servizi pubblici attraverso strumenti “propri” dell’Amministrazione: in ciò consiste, quasi letteralmente, la definizione di in house providing.

Il parere, in particolare, intende interrogarsi sul requisito della partecipazione pubblica totalitaria, di cui alla lett. c) dell’art. 5, comma 1, del Codice, nonché dell’art. 16, comma 1, del TUSP (d.lgs. n. 175/2016).

Tale requisito, infatti, non è (più) da intendersi rigidamente, essendo ormai consentite forme di partecipazione diretta di capitali privati a condizione che questa sia prevista a livello legislativo, in conformità di quanto stabilito a livello eurounitario, e non consenta l’esercizio di un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.

L’art. 5 del Codice, per la previsione di possibili forme di ingresso di capitali privati, fa espresso riferimento alla legislazione nazionale mentre l’art. 16 del TUSP si riferisce più genericamente alla legge, sembrando voler ricomprendere anche la legislazione regionale.

Nel caso di specie era una norma della Regione Piemonte a consentire l’ingresso di capitali privati in società in house (art. 4 della legge della Regione Piemonte n. 14/2016). Lo statuto della società in questione, poi, consentiva la partecipazione di capitali privati nel limite del 33%, precisando che i soci privati non potessero detenere partecipazioni che comportassero controllo o potere di veto.

Il Consiglio di Stato ha, innanzitutto, chiarito che l’apparente antinomia tra l’art. 5 del Codice e l’art. 16 del TUSP possa essere risolta affermando che, «quando la persona giuridica è controllata da un ente regionale, in relazione a competenze regionali, l’art. 16, co. 1, d.lgs. n. 175/2016 consente al legislatore regionale di prevedere l’ingresso di capitali privati in società in house, alle condizioni consentite dall’ordinamento […] e nei limiti delle proprie competenze legislative». D’altra parte, come sottolineato ancora nel parere, «l’articolo 16 del d.lgs. n. 175/2016 costituisce norma di pari rango rispetto all’articolo 5 del d.lgs. n. 50/2016, ma è successiva a quest’ultima e, quindi, nei limiti indicati, deve ritenersi prevalente a quest’ultima in applicazione del criterio cronologico».

La partecipazione di capitali privati a società in house, essendo prevista da una legge regionale, è stata quindi ritenuta in astratto legittima.

Tuttavia, nonostante la normativa eurounitaria e nazionale non fissino una soglia per i soci privati di minoranza, l’elevata soglia del 33%, prevista dallo statuto di quella specifica società in house, ha imposto una riflessione particolarmente attenta, considerata la deroga all’evidenza pubblica che un affidamento in house produce.

L’analisi del caso di specie ha, quindi, spinto il Consiglio di Stato a chiedersi fino a che punto possa spingersi la partecipazione di capitali privati e a quali condizioni possa comunque essere ritenuto ammissibile un affidamento in house.

In definitiva, il Consiglio di Stato ha chiarito che il raggiungimento anche di una soglia elevata di partecipazione di capitali privati ad una società in house della Regione possa essere ritenuto comunque ammissibile, in presenza delle seguenti ulteriori condizioni:

a) qualora la società in house abbia un oggetto sociale predefinito, individuato dal legislatore regionale nella prestazione di un servizio di interesse generale ricadente nell’esercizio delle funzioni tipiche dell’ente regionale;

b) quando l’Amministrazione regionale continui ad esercitare sulla società il controllo analogo;

c) quando la legge regionale e lo statuto della società ammettono la partecipazione di soci privati, nei limiti ed alle condizioni stabilite dalla normativa di riferimento.

In presenza del rispetto di dette condizioni, quindi, la partecipazione anche elevata di capitali privati a una società in house non può essere considerata un ostacolo alla possibilità di continuare a ricevere affidamenti diretti da parte della Regione.

Documenti collegati

Testo integrale del parere del Consiglio di Stato, sez. I, 8 novembre 2018, n. 2583

 

 

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