Con due recenti sentenze, pubblicate a pochi giorni di distanza, il Consiglio di Stato si è pronunciato sulla questione molto dibattuta relativa ai rapporti tra la legge 49/2023 sull’equo compenso e la disciplina dei contratti pubblici.
Nei suoi termini essenziali la questione si può così riassumere: se la disciplina sull’equo compenso contenuta nella legge 49/2023 si applichi o meno ai contratti aventi ad oggetto i servizi di ingegneria affidati ai sensi del Dlgs. 36/2023.
E’ noto che sul tema si sono contrapposti da tempo due distinti orientamenti, il primo favorevole all’applicazione e il secondo che negava la correttezza di questa soluzione, con una serie di argomentazioni molto articolate, che in particolare invocavano la specialità della normativa sui contratti pubblici.
E’ altrettanto noto che anche la giurisprudenza ammnistrativa si è divisa, in misura sostanzialmente paritaria, a favore dell’una o dell’altra tesi. Proprio in relazione a tale circostanza, era molto atteso il pronunciamento del Consiglio di Stato, che è appunto intervenuto con due sentenze quasi contestuali: la n. 594 del 27 gennaio 2025, Sezione III, e la n. 844 del 3 febbraio 2025 della Sezione V.
Il massimo giudice amministrativo si schiera in maniera netta a favore della tesi della non applicabilità della disciplina dell’equo compenso ai contratti pubblici.
Entrambe le pronunce sono peraltro intervenute in relazione alla disciplina del D.lgs. 36/2023 antecedente alle modifiche apportate sul punto dal D. lgs. 209/2024 (c.d. Decreto Correttivo). Quest’ultimo ha infatti introdotto una disciplina ad hoc che dal punto di vista operativo in parte supera le conclusioni del Consiglio di Stato. Tuttavia alcune delle affermazioni oprate nelle due sentenze richiamate mantengono un loro precipuo interesse, anche perché contengono alcune indicazioni che possono costituire ulteriori chiavi di lettura alla ricerca della soluzione di alcune problematiche che restano aperte anche dopo le novità introdotte dal Decreto correttivo.
Indice
- L’equo compenso non si applica ai contratti pubblici
- La disciplina dell’equo compenso e quella dei contratti pubblici non sono in contrasto
- Il principio generale dell’equo compenso di cui al D.lgs. 36/2023
- La legge sull’equo compenso e l’ambito di applicazione oggettivo
- Il Decreto correttivo e i problemi aperti
- Gli altri servizi intellettuali
L’equo compenso non si applica ai contratti pubblici
La questione centrale da tempo dibattuta e sopra riassunta è risolta con una posizione netta da parte del Consiglio di Stato: il principio affermato è che la normativa sull’equo compenso non si applica agli affidamenti dei contratti aventi ad oggetto i servizi di ingegneria oprati ai sensi del D.lgs. 36/2023, per i quali la disciplina dettata da tale Decreto rappresenta un corpo normativo speciale e compiuto.
A sostegno di questa conclusione vengono richiamati nella sentenza 844/2025 innanzi tutto argomenti di natura testuale. In particolare, viene evidenziato come l’articolo 41, comma 15 del D.lgs. 36/2023 consideri le tabelle di cui al Decreto ministeriale 17 giugno 2016 quale parametro per determinare l’importo a base di gara e non certo quale strumento per fissare minimi inderogabili dei compensi.
A conferma di questa impostazione viene rilevato che altre norme del D.lgs. 36/2023 prevedono minimi inderogabili, con riferimento agli elementi del salario o del costo della manodopera. A testimonianza indiretta che laddove il legislatore ha voluto introdurre questo concetto, lo ha previsto esplicitamente.
Ancora, il criterio di aggiudicazione per l’affidamento dei servizi di ingegneria è quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa, sulla base del rapporto qualità/prezzo. Il che rende evidente che la componente prezzo è un elemento essenziale del confronto competitivo, come tale suscettibile di ribasso in sede di gara.
A queste ragioni che attengono a elementi di carattere testuale, il Consiglio di Stato accompagna ragioni di natura sistematica. Nella sentenza 594/2025 il giudice amministrativo evidenzia alcuni interessanti profili.
In primo lugo, il principio dell’equo compenso individuato tra i principi generali della contrattualistica pubblica all’articolo 8 del D.lgs. 36/2023 non può essere interpretato in maniera univoca e rigida, tanto che ammette comunque la possibilità di prestazioni a titolo gratuito. Viene quindi confutato l’argomento utilizzato a sostegno della tesi dell’applicabilità della legge 49/2023 ai contratti pubblici, come si dirà in maniera più approfondita in un paragrafo successivo.
Proprio in relazione a tale ultimo profilo, il Consiglio di Stato sottolinea che l’introduzione nell’ordinamento dei contratti pubblici del vincolo rigido dell’equo compenso si porrebbe in totale contrasto con la finalità proconcorrenziale che è principio fondante della relativa disciplina.
Infine, il suddetto contrasto si estenderebbe anche alle previsioni della normativa comunitaria che pone rigidi vincoli alla possibilità di prevedere tariffe minime obbligatorie, la cui ammissibilità deve essere valutata secondo canoni restrittivi alla luce dei criteri di necessità e proporzionalità e sulla base di un rilevante interesse pubblico.
Proprio quest’ultima affermazione appare di particolare rilievo, specie tenuto conto della questione relativa alla compatibilità comunitaria della disciplina introdotta dal Decreto correttivo, come si dirà meglio più avanti.
Al momento, appare sufficiente sottolineare che l’affermazione del Consiglio di Stato in merito all’evidente sfavore che l’ordinamento comunitario riserva al regime tariffario fondato su minimi inderogabili richiama quel concetto di “incompatibilità ontologica” che sembra sussistere tra disciplina dell’equo compenso e affidamento dei contratti pubblici.
E ciò a meno di non voler sostenere che la normativa che stabilisce un compenso minimo e inderogabile a favore di chi svolge determinate prestazioni professionali non sia dettata a tutela dei professionisti – che è invece la ratio dichiarata della legge sull’equo compenso – ma persegua in realtà un rilevante interesse pubblico di carattere generale. Tesi che appare difficilmente sostenibile, secondo quanto verrà meglio evidenziato più avanti.
La disciplina dell’equo compenso e quella dei contratti pubblici non sono in contrasto
Affermato in maniera netta il principio della non applicabilità della legge 49/2023 all’affidamento dei contratti pubblici, il Consiglio di Sdato articola poi il suo ragionamento evidenziando che tra la disciplina dei contratti pubblici e quella dell’equo compenso non vi sarebbe antinomia. Di conseguenza, le due normative vanno interpretate e applicate in modo integrato e coordinato, valorizzando e contemperando le diverse ratio cui rispondono: quella proconcorrenziale propria della prima e quella di tutela delle professioni propria della seconda.
Questa lettura coordinata viene incentrata su due specifiche disposizioni contenute nella legge 49/2023. La prima è quella dell’articolo 1 che definisce l’equo compenso come “compenso proporzionato alla quantità e qualità del lavoro svolto” nonché conforme ai compensi previsti “per i professionisti iscritti agli ordini e collegi dai decreti ministeriali adottati ai sensi dell’articolo 9 del decreto legge 24 gennaio 2012, n.1”.
La seconda previsione è quella dell’articolo 3, secondo cui si deve ritenere compenso non equo quello “inferiore agli importi stabiliti dai parametri per la liquidazione dei compensi dei professionisti iscritti agli ordini o ai collegi professionali, fissati con decreto ministeriale”.
Secondo il Consiglio di Stato l’interpretazione coordinata di queste due previsioni porta a ritenere che negli affidamenti dei contratti pubblici assumano rilievo due distinti Decreti ministeriali, entrambi emanati ai sensi dell’articolo 9 del Decreto legge 1/2012:
il Decreto Ministeriale 17 giugno 2016, che definisce i parametri per la determinazione dell’importo a base di gara;
il Decreto Ministeriale n. 140/2012 che definisce i parametri per la liquidazione dei compensi professionali in sede giurisdizionale.
Peraltro, mentre il primo Decreto indica dei parametri fissi e inderogabili, il secondo Decreto contiene dei margini di flessibilità che consentono di graduare il compenso da riconoscere in virtù di una serie di elementi (complessità della prestazione, natura dell’opera, risultati e vantaggi conseguiti dal committente) sulla base dei quali l’organo giurisdizionale può aumentare o diminuire il compenso fino al 60% di quanto liquidabile con l’applicazione dei parametri.
In sostanza, mentre il Decreto ministeriale del 17 giugno 2016 deve essere utilizzato per la definizione dell’importo a base di gara, è al secondo Decreto 140/2012 che occorre fare riferimento per stabilire se il corrispettivo da riconoscere all’affidatario del contratto sia o meno equo.
E secondo il Consiglio di Stato la verifica se il corrispettivo da riconoscere – risultante dal ribasso formulato in sede di gara – sia o meno equo non può che trovare collocazione nella sua sede naturale, cioè nell’ambito del procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta presunta anomala.
In definitiva, secondo il Consiglio di Stato la lettura coordinata delle norme porta al seguente risultato:
– l’importo a base d’asta – determinato ai sensi del DM 17 giungo 2016 – può essere oggetto di ribasso in sede di gara;
– per stabilire se tale ribasso sia equo – e quindi ammissibile – occorre fare riferimento ai parametri (flessibili fino al 60% in aumento o in diminuzione) definiti con il Decreto 140/2012;
– la sede naturale per effettuare tale accertamento è il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta.
Questo passaggio dell’iter argomentativo del Consiglio di Stato può essere riassunto in un’affermazione emblematica: nella materia dei contratti pubblici non vi è equo compenso, ma vi deve essere un equo ribasso.
Anche in questo caso l’affermazione operata appare idonea ad offrire una significativa chiave interpretativa in relazione alla questione che deriva dalla nuova disciplina introdotta dal Decreto correttivo – come si vedrà meglio più avanti – inerente le modalità con cui si deve individuare e poi accertare l’eventuale anomalia delle offerte che presentino dei ribassi eccessivi.
Il principio generale dell’equo compenso di cui al D.lgs. 36/2023
La sentenza 844/2025 si diffonde sul tema della previsione contenuta all’articolo 8, comma 2 del D.lgs. 36/2024 che assume tra i principi generali delle contrattualistica pubblica quello dell’equo compenso.
Come si è accennato, si tratta di un argomento che è stato ripetutamente e con forza utilizzato dai sostenitori della tesi dell’applicabilità della legge 49/2023 ai contratti pubblici. In estrema sintesi, il ragionamento svolto è stato che l’equo compenso è già previsto dal D.lgs. 36/2023 in termini di principio generale e di conseguenza le legge 49/2023 non ha fatto altro che declinarlo in maniera puntuale.
Questo argomento viene sostanzialmente respinto dal Consiglio di Stato. Il giudice amministrativo evidenzia infatti che la previsione del comma 2 dell’articolo 8 del D.lgs. 36/2023 afferma appunto un principio generale, non una regola di dettaglio, che come tale non può certamente essere inteso come un richiamo alle regole puntuali dettate dalla legge 49/2023.
In sostanza, il principio dell’equo compenso dell’articolo 8, nella sua articolazione fattuale, viene poi recepito dalla normativa sui contratti pubblici secondo un paradigma autonomo e compatibile con l’esigenza di garantire le ordinarie esigenze concorrenziali, che rappresentano l’elemento fondante della normativa stessa.
Esce quindi rafforzato anche sotto questo profilo l’impianto complessivo che il Consiglio di Stato delinea in merito ai rapporti tra equo compenso e contratti pubblici. La disciplina di questi ultimi recepisce e traduce la nozione di equo compenso secondo regole e paradigmi suoi propri, rappresentando un assetto normativo in sé compiuto e autosufficiente.
Sotto questo profilo assume ancora una volta un rilievo decisivo il procedimento di verifica dell’anomalia dell’offerta. E’ nell’ambito di tale procedimento, connotato da passaggi e garanzie specifiche, che trova accoglimento l’esigenza di evitare che le prestazioni siano affidate a soggetti che hanno presentato un’offerta recante un ribasso eccessivo.
E’ quindi in questo quadro che deve trovare collocazione il così detto equo compenso, in realtà traducibile come equo ribasso. Questo è il modo corretto per garantire il giusto equilibrio tra la finalità concorrenziale che è il valore portante della normativa sui contratti pubblici e la corretta esigenza di assicurare un corrispettivo equo ai prestatori di servizi di ingegneria (così come a tutti gli altri affidatari di contratti pubblici).
La legge sull’equo compenso e l’ambito di applicazione oggettivo
Ma è proprio il riferimento ai servizi ingegneria che apre un’altra rilevate tematica, fino ad oggi trascurata nel dibattito che si è sviluppato sull’argomento e che invece dovrebbe essere alla base di ogni riflessione.
Ci si riferisce al tema della corretta definizione dell’ambito di applicazione oggettivo della legge 49/2023. L’articolo 2, comma 1 di tale legge definisce il proprio ambito di applicazione in relazione ai rapporti professionali aventi ad oggetto prestazioni d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile.
Il dato testuale della norma circoscrive quindi l’applicazione della relativa disciplina alle ipotesi in cui la prestazione professionale trova fondamento in un contratto d’opera caratterizzato dall’elemento personale, in cui il singolo professionista assicura lo svolgimento della relativa attività principalmente con il proprio lavoro autonomo. Detto altrimenti, la tipologia contrattuale cui si è voluto riferire il legislatore della legge 49/2023 è chiaramente individuata e coincide con il contratto avente ad oggetto una prestazione d’opera intellettuale nei termini di cui all’articolo 2230 del codice civile.
Va ricordato che la giurisprudenza ha più volte evidenziato la differenza tra questa ipotesi e l’altra in cui la prestazione professionale viene resa attraverso una articolata organizzazione di mezzi e risorse e con assunzione del relativo rischio imprenditoriale. Quest’ultima ipotesi è stata correttamente inquadrata nell’appalto di servizi, che quindi resta nettamente distinto dal contratto d’opera.
L’affidamento dell’attività di progettazione disciplinato dal D.lgs. 36/2023 avviene indiscutibilmente attraverso un appalto di servizi. Ne consegue che si può ragionevolmente sostenere che tale tipologia contrattuale resti fuori dall’ambito applicativo della disciplina sull’equo compenso.
La stessa conclusione vale per l’attività di validazione, anch’essa caratterizzata dalla presenza di un’organizzazione imprenditoriale per lo svolgimento delle relative prestazioni.
Qualche dubbio potrebbe sussistere per le ulteriori prestazioni professionali quali la direzione lavori, il coordinamento della sicurezza e il collaudo. Per queste prestazioni può effettivamente accadere – anche se non è necessariamente la regola – che l’elemento personale rivesta un rilievo significativo, anche se non può trascurarsi che sotto il profilo della contrattualistica pubblica anche lo svolgimento di tali attività è stato tradizionalmente inquadrato nell’ambito dell’affidamento di un appalto di servizi.
Significativo in questo senso è un passaggio della sentenza 844/2025 in cui il giudice amministrativo afferma che la legge 49/2023 sull’equo compenso – secondo appunto la chiara indicazione testuale contenuta all’articolo 2, comma 1 – riguarda “i rapporti professionali aventi ad oggetto la prestazione d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile”, cioè i contratti d’opera professionale di cui al richiamato articolo.
L’affermazione viene in verità operata in maniera incidentale nell’ambito di un ragionamento più articolato, senza quindi che venga sviluppato un conseguente approfondimento. E tuttavia non si può ignorare che la stessa sembra andare proprio nella direzione sopra indicata, volta a escludere dall’ambito applicativo della legge 49/2023 tutte quelle forme contrattuali – e in primo luogo il contratto di appalto – diverse dal contratto d’opera professionale.
Non si può peraltro ignorare che lo stesso articolo 2, comma 1 della legge 49/2023 introduce un elemento che potrebbe suscitare qualche dubbio sulla reale volontà che il legislatore intendeva perseguire. Ci si riferisce alla previsione secondo cui la legge 49/2023 si applica alle prestazioni d’opera intellettuale svolte “anche in forma associata o societaria”, cioè secondo modalità organizzative che si allontanano dallo svolgimento in termini personali delle prestazioni stesse.
E tuttavia questo riferimento non appare sufficiente a superare quello precedente che indica in maniera chiara l’unica tipologia contrattuale cui si applica la legge 49/2023, e cioè il contratto d’opera intellettuale che si è voluto individuare con un riferimento inequivoco al codice civile.
Si deve allora ragionevolmente ritenere che l’applicazione della legge sull’equo compenso resti circoscritta al contratto d’opera intellettuale, prevedendosi unicamente che la stessa venga assicurata anche nei casi in cui tale contratto viene eseguito non da un professionista singolo ma da un’associazione o società di professionisti.
In sostanza, la legge 49/2023 ha inteso introdurre un sistema di tutela dei professionisti che – in forma singola, associata o societaria – svolgono una prestazione che si connota in termini di opera intellettuale, incentrata cioè essenzialmente sul carattere personale della prestazione medesima.
La logica conclusione dovrebbe essere che se le prestazioni professionali vengono svolte nell’ambito e in esecuzione di un contratto di appalto, le norme sull’equo compenso non trovano applicazione.
Questa conclusione appare in linea con la ratio che ispira la legge 49/2023 – come comunemente condivisa – che è quella di tutelare il “contraente debole” nei confronti di un ”committente forte” che può definire a suo piacimento le condizioni contrattuali e in primo luogo la misura del corrispettivi (imponendo appunto un compenso non equo).
Appare infatti coerente identificare il “contraente debole” con il professionista singolo o che comunque, pur operando in forma associata o anche societaria, svolge le prestazioni secondo modalità di tipo artigianale. Più difficile ipotizzare che possano essere considerate “contraenti deboli” le organizzazioni complesse e che svolgono le loro prestazioni secondo logiche industriali, come le società di ingegneria o gli altri soggetti che agiscono in forme strutturate con un’articolata organizzazione di impresa.
La stessa legge 49/2023 contiene in sé – oltre all’inequivoco riferimento al contratto d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile – una serie di ulteriori elementi che confermano in maniera chiara questa ratio e la conseguente impostazione normativa.
In primo luogo, l’articolo 2, comma 1, fa riferimento per identificare lo schema giuridico avente ad oggetto le prestazioni professionali alla nozione di “convenzione”. L’utilizzo di tale termine in luogo di quello che sarebbe stato più naturale di “contratto” appare indicativo della volontà di riferirsi a rapporti negoziali prolungati nel tempo e di tipo seriale.
Appare quindi coerente con la ratio della normativa sull’equo compenso una lettura interpretativa secondo cui il termine “convenzione” non sarebbe stato utilizzato dal legislatore in senso generalizzato, ma per qualificare puntualmente determinati rapporti contrattuali, caratterizzati dallo svolgimento di una serie di attività in un determinato periodo temporale e a specifiche condizioni economiche. In questa tipologia contrattuale il committente svolge spesso un ruolo dominante nel prestabilire le relative condizioni, e i margini di negoziazione del professionista privato risultano correlativamente ridotti.
E’ proprio rispetto a queste ipotesi che dispiegherebbe pienamente i suo effetti la ratio della normativa sull’equo compenso, che appunto intende tutelare il professionista in quanto contraente debole.
Al contrario, tale ratio non troverebbe spazio in tutti quei rapporti contrattuali in cui il contenuto delle relative condizioni, anche economiche, è il risultato di una libera contrattazione tra le parti. E ciò è quello che accade tipicamente nei contratti di appalto, in cui i contraenti definiscono il contenuto della prestazione richiesta che non è seriale né ripetitiva, ma si connota in relazioni a caratteri specifici e puntuali.
Una conferma indiretta di questa lettura si può ricavare dall’elencazione dei committenti tenuti ad applicare la legge 49/2023. Non sembra casuale che tale elencazione si apra con il riferimento alle “imprese bancarie e assicurative”, cioè proprio quei committenti che spesso richiedono prestazioni professionali di tipo seriale, nei fatti imponendo le relative condizioni, prime tra tutte quelle economiche.
Ancora, l’articolo 3, comma 1 contiene un riferimento testuale “all’opera prestata”, espressione che appunto richiama la prestazione d’opera di cui all’articolo 2230 del codice civile.
Sulla stessa linea si collocano altre due previsioni della legge 49/2023. La prima è contenuta all’articolo 6, che fa riferimento a “modelli standard di convenzione” che i committenti possono concordare con i Consigli Nazionali degli ordini o collegi professionali per definire compensi da ritenere equi fino a prova contraria.
E’ infatti difficilmente ipotizzabile che vi siamo modelli standard di contratti di appalto che definiscano in termini generalizzati le relative condizioni e in particolare il corrispettivo da ritenere equo. Più facile immaginare che il legislatore intendesse appunto riferirsi a quelle prestazioni seriali e di natura tendenzialmente omogena, che meglio consentono la definizione di clausole standard, anche sotto il profilo del corrispettivo economico.
La seconda previsione è contenuta all’articolo 9 e riguarda la possibilità per i professionisti di tutelare i propri diritti tramite la così detta “azione di classe”. Strumento di tutela tipico di soggetti individuali, che mal si attaglia a figure contrattuali quali il contratto di appalto, in cui l’azione di classe dovrebbe essere intrapresa dagli appaltatori.
In definitiva, si può ritenere che l’impianto complessivo della legge 49/23 – come risulta evidente dalle singole disposizioni che lo compongono – abbia un ambito applicativo ben circoscritto, che si identifica con le prestazioni professionali svolte ai sensi del contratto d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile.
Volerne estendere l’applicazione al di là di questo ambito e in particolare ai contratti di appalto appare un’oggettiva forzatura sia del dato normativo ma soprattutto della ratio ispiratrice della disciplina di tutela cui la legge 49/23 si ispira.
Il Decreto correttivo e i problemi aperti
Le considerazioni appena svolte sull’ambito applicativo della legge 49/2023 sotto il profilo oggettivo nonché le affermazioni sopra ricordate contenute nelle due sentenze del Consiglio di Stato relative alla non applicabilità dell’equo compenso ai contratti pubblici escono ridimensionate, relativamente appunto al settore dei contratti pubblici, a seguito delle novità introdotte sul tema dal D.lgs. 209/2024.
Tali novità delineano per gli affidamenti operati ai sensi del D.lgs. 36/2023 un sistema compiuto e autoreferenziale, che esclude l’applicazione dell’equo compenso nei termini disciplinati dalla legge 49/2023.
Questo aspetto è stato chiaramente evidenziato anche dal Consiglio di Stato nel Parere 1463 del 2 dicembre 2024 reso sullo schema di Decreto correttivo. E’ stato infatti sottolineato che disciplina ad hoc introdotta conferma in maniera inequivoca che nella materia dei contratti pubblici non si applica la disciplina dell’equo compenso nei termini indicati dalla legge 49/2023.
Se infatti il legislatore avesse ritenuto che tale legge dovesse trovare applicazione agli affidamenti operati ai sensi del D.lgs. 36/2023 avrebbe dovuto limitarsi ad affermarlo esplicitamente. Al contrario, la scelta è stata quella di estrapolare un principio della legge 49/2023 – inderogabilità dei minimi tariffari – per operarne un’applicazione peraltro parziale e su di essa fondare la relativa disciplina relativa all’affidamento dei contratti pubblici.
In sostanza, la scelta del legislatore non è stata quella di prevedere l’applicazione pura e semplice della disciplina dell’equo compenso della legge 49/2023 ai contratti pubblici, quanto piuttosto quella di adeguare la disciplina di questi ultimi al principio – recepito peraltro parzialmente – dell’invariabilità del corrispettivo posto a base di gara.
Questo risultato viene raggiunto con una disciplina frutto di scelte per molti aspetti singolari. Viene infatti in primo luogo stabilito che le stazioni appaltanti provvedano – analogamente a quanto è previsto attualmente – alla determinazione dell’importo a base di gara secondo le modalità indicate all’Allegato I.13, cioè sostanzialmente facendo applicazione dei parametri stabiliti dal Decreto del Ministro della giustizia del 17 giugno 2016. Tale importo ricomprende i compensi in senso proprio nonché gli oneri e le spese accessori, fissi e variabili.
A questo punto si entra nel cuore nella scelta operata dal legislatore. Viene stabilito in primo luogo che l’aggiudicazione di questi contratti deve avvenire utilizzando il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, individuata sulla base del miglior rapporto qualità prezzo.
Nell’ambito di tale criterio, ogni stazione appaltante deve definire il punteggio da attribuire all’offerta economica (il prezzo) secondo i metodi di calcolo introdotti nell’articolo 2 – bis dell’ Allegato I.13, ma con il limite di non poter superare il tetto massimo del 30%.
L’introduzione di questo limite massimo rappresenta una novità, non essendo previsto esplicitamente nell’attuale disciplina del criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa. In sostanza, il peso ponderale delle componente economica dell’offerta non può superare il limite del 30%, dovendo quindi rappresentare un elemento minoritario ai fini dell’aggiudicazione.
Al di là di questo vincolo parametrico, viene poi operata una suddivisione dell’importo a base di gara: il 65% assume la forma di prezzo fisso, ai sensi dell’articolo 108, comma 5. Il restante 35% può invece essere assoggettato a ribasso.
Il richiamo all’articolo 108, comma 5 intende far riferimento alla possibilità prevista dalla disposizione in esame secondo cui, anche in virtù di specifiche disposizioni legislative, regolamentari o amministrative relative alla remunerazione di servizi specifici, il relativo prezzo può essere determinato in misura fissa, in modo tale che gli operatori economici concorrano esclusivamente in relazione alla parte qualitativa dell’offerta.
La disciplina si completa con altre due previsioni. Il comma 15 – ter stabilisce che restano ferme le disposizioni in materia di esclusione automatica delle offerte anomale di cui all’articolo 54 e all’Allegato II.2, relative peraltro ai soli contratti di importo inferiore alla soglia comunitaria e privi di interesse transfrontaliero.
Infine, il comma 15 – quater è dedicato ai contratti di importo inferiore a 140.000 euro conclusi tramite affidamento diretto, per i quali è stabilito in maniera imperativa e generalizzata che i corrispettivi calcolati facendo applicazione dell’Allegato I.13 – e quindi secondo i parametri definiti nel DM 17 giugno 2016 – possono essere ridotti in misura non superiore al 20%.
La scelta operata dal legislatore e la disciplina che ne consegue suscitano più di una perplessità sotto il profilo dell’inquadramento giuridico.
La disciplina introdotta trova il suo elemento fondante nello spacchettamento del corrispettivo del contratto in due componenti: la prima del 65 %, fissa e invariabile e la seconda del 35%, ribassabile. Si tratta di una mera operazione matematica di cui non è agevole cogliere il principio razionale.
La disposizione che impone l’indicata suddivisione va peraltro letta in coordinamento con l’altra previsione, sopra ricordata, secondo cui nell’ambito dell’offerta economicamente più vantaggiosa l’elemento prezzo non può superare il peso ponderale del 30% ai fini dell’aggiudicazione. Ciò significa che il confronto concorrenziale per la componente economica è confinato al 35% del corrispettivo che a sua volta incide per una percentuale massima del 30% in sede di scelta della migliore offerta. Nei fatti, una concorrenza molto limitata sotto il profilo economico.
A ciò si deve aggiungere che la percentuale del 35%, proprio perché non risponde ad alcun principio razionale, sembra piuttosto trarre origine da un dato di esperienza, secondo cui tale percentuale non è lontana dai ribassi medi che storicamente sono stati registrati nelle gare per l’affidamento dei servizi di ingegneria.
Il che porta a ritenere che potrebbe ragionevolmente verificarsi il fenomeno secondo cui i concorrenti, relativamente alla percentuale ribassabile del 35%, si attesteranno in maniera omogenea su ribassi molto elevati o addirittura pari al 100%. Ciò significa sostanzialmente restringere ancora di più ed in molti casi annullare la concorrenza sotto il profilo economico, concentrando la selezione della migliore offerta in termini esclusivamente qualitativi.
Al di là di queste perplessità di fondo sulla soluzione adottata, restano comunque aperte alcune rilevanti problematiche.
La prima riguarda il tema delle offerte anomale, sotto il duplice profilo dell’individuazione delle offerte sospette di anomalia e delle caratteristiche del relativo procedimento.
Sotto il primo aspetto, le stazioni appaltanti potrebbero ritenere anomale – e come tali da sottoporre a verifica – le offerte recanti ribassi eccessivi della parte di corrispettivo ribassabile (appunto il 35%).
Se infatti è vero che vi è comunque la percentuale del 65% non ribassabile – e che in astratto potrebbe far ritenere comunque remunerativa (e quindi non anomala) l’offerta presentata – è altrettanto indiscutibile che un ribasso eccessivo sulla (sola) parte di corrispettivo ribassabile potrebbe essere considerato indice di anomalia, in quanto destinato ad alterare la remuneratività complessiva dell’offerta.
Non va ignorato al riguardo l’orientamento giurisprudenziale che si è andato affermando nell’ultimo periodo in relazione ai ribassi eccessivi o addirittura pari al 100% riferiti alle spese e oneri accessori nell’ipotesi in cui le stazioni appaltanti abbiano ritenuto tale elemento il solo suscettibile di ribasso. In più di un caso il giudice amministrativo ha ritenuto che le offerte recanti tali ribassi dovessero essere considerate anomale e come tali da sottoporre a verifica.
E se tale conclusione è stata raggiunta in relazione a una componente accessoria del corrispettivo, distinta dal compenso in senso proprio, a maggior ragione la stessa potrebbe essere ritenuta ragionevole se applicata a una parte del compenso, per quanto minoritaria.
Quanto al secondo aspetto relativo al procedimento di verifica, il criterio da seguire deve essere coerente con quello ritenuto valido ai fini dell’individuazione delle offerte presunte anomale. Di conseguenza, anche sotto questo profilo appare necessario che la verifica della congruità del ribasso vada effettuata con riferimento esclusivo alla quota del corrispettivo ribassabile (35%) e non all’intero corrispettivo.
In sostanza, gli elementi giustificativi andranno valutati verificando se gli stessi sono idonei a giustificare il ribasso elevato
con esclusivo riferimento alla quota del 35% del corrispettivo totale.
La seconda problematica da affrontare riguarda il rapporto tra gli affidamenti operati ai sensi del D.lgs. 36/2023 e gli specifici strumenti di tutela che la legge 49/2023 mette a disposizione dei professionisti. Si tratta degli specifici istituti previsti dalla legge 49/2023 che si possono così riassumere: nullità delle clausole che definiscono un compenso non equo; eventuale indennizzo a favore del professionista; rilascio di un parere di congruità dell’ordine o collegio professionale interessato; azione di classe.
Si tratta di stabilire se tutti o alcuno di tali strumenti siano applicabili nel caso di contratti pubblici affidati ai sensi del D.lgs. 36. Si prescinde in questa sede dalla valutazione preliminare – che sarebbe dirimente – che trattandosi indiscutibilmente di appalti di servizi l’intera legge 49/2023 non dovrebbe trovare applicazione.
Sull’assunto contrario – non condiviso da chi scrive per le ragioni illustrate nel paragrafo precedente – che i contratti di appalto siano soggetti alla legge 49/2023, si pone appunto il tema se gli specifici strumenti di tutela in essa previsti possano trovare applicazione ai contratti di appalto pubblico.
In termini generali sembra potersi affermare che la risposta debba essere negativa. Il D.lgs. 209/2023 ha definito per l’affidamento dei contratti pubblici relativi ai servizi di ingegneria un sistema a sé stante e autosufficiente, che non contempla l’applicazione della legge sull’equo compenso ai fini della determinazione dei relativi corrispettivi.
Se si parte quindi dall’assunto non contestabile che la disciplina sull’equo compenso come delineata dalla legge 49/2023 non si applica agli affidamenti dei contratti pubblici ai fini della determinazione dei corrispettivi, sarebbe contraddittorio ritenere che invece operino le specifiche forme di tutela previste dalla legge stessa.
Entrando nel dettaglio, non appare possibile ipotizzare che gli ordini o collegi professionali possano emettere un parere di congruità sul compenso professionale che vale come titolo esecutivo o che possano essere proposte azioni di classe dal Consiglio nazionale dell’Ordine professionale.
In entrambi i casi si tratta di istituti le cui caratteristiche risultano incompatibili con le regole proprie della contrattualistica pubblica.
Qualche dubbio potrebbe astrattamente sorgere in relazione al regime di nullità parziale delle clausole contrattuali che stabiliscono un compenso non equo, che secondo la legge 49/2023 sono impugnabili davanti al giudice ordinario che ridetermina il corrispettivo secondo i parametri dell’equo compenso e può anche stabilire un indennizzo a favore dell’esecutore delle prestazioni professionali.
Ma anche in questo caso appare corretto far prevalere la natura di disciplina speciale propria del D.lgs. 36/2023 come modificata dal D.lgs. 209/2024. Tale disciplina delinea un sistema in sé compiuto, che non può subire ingerenze esterne e distorsioni a seguito dell’applicazione di normative che vengono a confliggere con le previsioni proprie della disciplina speciale.
Riportando questo assunto alla eventuale nullità della clausola contrattuale, accogliendo la tesi opposta si arriverebbe alla conclusione – inaccettabile – secondo cui il giudice ordinario potrebbe nei fatti annullare l’esito della procedura di gara che l’ente appaltante ha svolto nel pieno rispetto delle norme che regolano l’affidamento dei contratti pubblici.
In sostanza le ipotesi sono due. Se l’ente appaltante determina il corrispettivo secondo regole diverse da quelle da ultimo introdotte dal D.lgs. 209/24, il bando deve considerarsi illegittimo e come tale impugnabile davanti al giudice amministrativo. Ma se al contrario tali regole sono rispettate, non residua alcuno spazio per invocare davanti al giudice ordinario la nullità della relativa clausola contrattuale, sull’assunto che definisca un corrispettivo non equo.
Resta infine l’ulteriore questione aperta, ultima in ordine di trattazione ma non di importanza. Tale questione si incentra nello stabilire se la disciplina introdotta dal D.lgs. 209/2024 possa considerarsi pienamente conforme all’ordinamento comunitario. Infatti, la limitazione della ribassabilità dell’importo a base di gara a una parte minoritaria dello stesso (il 35%) costituisce oggettivamente una limitazione alla concorrenza. Resta quindi il fondato dubbio se tale limitazione possa comunque considerarsi in linea con le previsioni comunitarie o non comporti una contrasto – sia pure parziale – con il divieto di introdurre in termini astratti e generalizzati prezzi minimi e inderogabili, come tali sottratti al confronto concorrenziale, che è espressione dei principi generali di concorrenzialità e di apertura al mercato propri dell’ordinamento comunitario.
Sotto questo profilo anche le due pronunce del Consiglio di Stato contengono indicazioni che non appaiono univoche. In particolare, nella sentenza n. 844 del 3 febbraio 2025 il giudice amministrativo ha respinto la questione di compatibilità comunitaria della legge 49/2023 che era stata sollevata dal ricorrente.
Ma questa decisione trova fondamento nella circostanza – puntualmente evidenziata nella stessa pronuncia – secondo cui il Consiglio di Stato ha ritenuto non applicabile alla materia dei contratti pubblici la normativa sull’equo compenso. Ciò comporta che venga conseguentemente e necessariamente meno ogni profilo di compatibilità di quest’ultima con l’ordinamento comunitario.
Questione diversa è se, in termini generali, l’impianto complessivo delineato dal D.lgs. 209/2024 possa considerarsi pienamente conforme all’ordinamento comunitario.
Sotto questo profilo, le indicazioni ricavabili dalle pronunce del Consiglio di Stato lasciano aperti i dubbi. Se infatti da un lato tali pronunce sembrano condividere la ratio di tale disciplina, dall’altro lo stesso giudice amministrativo ricorda ancora una volta come la previsione di tariffe minime e inderogabili per essere compatibile con l’ordinamento comunitario deve essere rispettosa dei criteri di necessità e proporzionalità e comunque deve rispondere a un rilevante interesse pubblico.
La ricorrenza di tali elementi limitativi nella disciplina introdotta non appare scontata. In particolare, la rispondenza all’interesse pubblico appare di non facile configurabilità, considerato che la disciplina del D.lgs. 209/2024 ha il dichiarato scopo di tutelare – sia pure parzialmente – la categoria dei prestatori d’opera professionale; tutela che, per quanto legittima, non è agevole identificare in termini immediati come rispondente a un interesse pubblico generale.
Né appare risolutivo per superare questa obiezione il riferimento alla previsione contenuta all’articolo 108, comma 5 del D.lgs. 36/2023, che riprende un’analoga previsione contenuta nella normativa comunitaria. Secondo tale previsione nell’ambito del criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa l’elemento relativo al costo può assumere la forma di un prezzo o costo fisso, con la conseguenza che i concorrenti sono chiamati a competere sulla base dei soli criteri qualitativi.
Secondo una certa interpretazione – di cui peraltro si trova traccia, sia pure sotto un profilo particolare, nella sentenza n.844 del 3 febbraio 2025 – questa previsione, nel momento in cui consente di concentrare l’aggiudicazione sui soli elementi qualitativi addirittura azzerando l’elemento del costo/prezzo, a maggior ragione legittimerebbe la scelta di ridurre – e non di azzerare – l’incidenza del profilo economico dell’offerta ai fini dell’aggiudicazione, limitandola alla percentuale del 35% del corrispettivo complessivo.
Il ragionamento tuttavia non convince del tutto. Non pare contestabile che l’utilizzo del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa che prevede un prezzo/costo fisso comporta un’oggettiva attenuazione del confronto concorrenziale. Una comparazione tra le offerte limitata ai soli elementi qualitativi priva infatti tale confronto di un elemento di valutazione essenziale, che è quello economico.
Sulla base di questo assunto, appare quindi più coerente al sistema di regole che presiede all’affidamento dei contratti pubblici – sia a livello nazionale che comunitario – che la disposizione del comma 5 dell’articolo 108 sia interpretata come legittimante una facoltà esercitabile dalle stazioni appaltanti in relazione a casi specifici, piuttosto che come applicabile in via generalizzata nell’ambito del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa e quindi indistintamente a tutti gli affidamenti dei servizi di progettazione.
Un’interpretazione di questo tipo appare maggiormente aderente anche all’ordinamento comunitario e all’orientamento della Corte di giustizia UE, sempre molto attento a salvaguardare gli spazi di discrezionalità degli enti appaltanti nell’applicazione delle norme.
E’ quindi da ritenere che il tema della compatibilità delle previsioni del D.lgs. 209/2024 con le norme comunitarie non sia superato ed è ragionevolmente ipotizzabile che possa essere portato all’attenzione della Corte di giustizia UE.
Gli altri servizi intellettuali
Vi è infine un’ulteriore questione che si pone alla luce delle innovazioni introdotte dal D.lgs. 209/2024. Se cioè le regole dettate – e in particolare la suddivisione dell’importo a base di gara tra la percentuale del 65% non ribassabile e la residua percentuale del 35% suscettibile di ribasso – debbano trovare applicazione a tutti i servizi connotati da una prestazione di natura intellettuale (primi tra tutti i servizi legali ma anche ad esempio quelli finalizzati alla produzione di uno studio di fattibilità tecnico – economica).
Si deve premettere che, in coerenza con quanto affermato in precedenza, si ritiene che la questione non riguardi indistintamente tutti i servizi intellettuali, ma solo quelli la cui esecuzione avviene sulla base di un contratto di appalto. Restano invece esclusi dalla problematica i servizi svolti sulla base di un contratto d’opera intellettuale di cui all’articolo 2230 del codice civile.
Proprio i servizi legali rendono evidente tale distinzione. Una prestazione professionale caratterizzata dall’elemento strettamente personale quale la difesa in giudizio o la redazione di un parere ad hoc – che si connota quindi anche in termini fortemente fiduciari – trova in via naturale il proprio assetto negoziale nel contratto d’opera intellettuale. Non si pone quindi un tema di applicazione del D.lgs. 36/2023, ma piuttosto della legge 49/2023 sull’equo compenso.
Se invece i servizi legali si caratterizzano per lo svolgimento in maniera continuativa di attività complesse e variegate e sulla base di un’organizzazione articolata, sostanzialmente in funzione di vera e propria supplenza rispetto alle attività tipiche degli uffici interni dell’ente appaltante, si verterà nell’ambito di un appalto di servizi.
In questa ipotesi, si pone la questione se le regole introdotte dal D.lgs. 209/2024 debbano necessariamente trovare applicazione anche all’affidamento di questa tipologia di appalti e, più in generale, a tutti gli appalti aventi ad oggetto servizi di natura intellettuale.
La risposta alla domanda deve partire da un dato: le regole dettate dal D.lgs. 209/24 delineano un regime speciale, come tale applicabile esclusivamente allo stretto ambito cui si riferisce, cioè gli appalti aventi ad oggetto i servizi di ingegneria.
Ciò porta ad escludere che vi possa essere un obbligo delle stazioni appaltanti ad applicare tali regole in via analogica in relazione all’affidamento di tutti gli appalti di servizi intellettuali, proprio perché l’applicazione analogica non può trovare spazio in relazione a norme speciali.
Ciò detto, si deve ritenere possibile che gli enti appaltanti, nell’esercizio della loro discrezionalità, possano decidere di applicare in sede di affidamento le regole richiamate, consentendo quindi il ribasso solo su una parte del corrispettivo, per ipotesi coincidente con il 35% dell’importo complessivo. Ciò potrà legittimamente avvenire anche sfruttando la possibilità consentita dall’articolo 108, comma 5 del D.lgs. 36/2023, che permette di utilizzare il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa indicando un costo o prezzo fisso, anche solo in parte.
In sostanza nessun obbligo di applicazione delle regole del D.lgs. 209/2024 per l’affidamento dei servizi di natura intellettuale, ma possibilità di riferirsi a tali regole in virtù di una scelta autonoma, purchè la stessa sia valutata caso per caso in relazione alle caratteristiche dell’appalto da affidare e non si ponga in funzione eccessivamente restrittiva delle regole concorrenziali.
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento