Consiglio di Stato, Sez. V, 22 dicembre 2022, n. 11200
Ai fini dell’impugnabilità di un provvedimento amministrativo occorre valutare, in concreto, l’effetto che arreca nella sfera giuridica del destinatario e in che modo tale effetto possa arrecare pregiudizio alle posizioni giuridiche soggettive da quest’ultimo vantate. Invero, va ricordato che è stata riconosciuta l’impugnabilità degli atti, anche generali o regolamentari, aventi portata immediatamente prescrittiva, ovvero che vincolino la successiva attività amministrativa, di guisa che il successivo atto si atteggi quale atto meramente dichiarativo o ricognitivo.
A prescindere dall’inquadramento dogmatico (linee guida, parere, raccomandazione, aventi o meno natura vincolante), se le indicazioni dell’Autorità, nell’ambito del potere di vigilanza e controllo, assumono il ruolo di canoni oggettivi a cui conformarsi, determinando un effetto immediatamente lesivo nella sfera giuridica del destinatario, le stesse sono impugnabili. In sostanza, quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario (art. 24 Cost.).
L’esercizio di una potestà amministrativa che ha conseguenze pregiudizievoli, di qualsiasi natura, ed a prescindere da una espressa qualificazione in tal senso nella legge o nel regolamento che la preveda, non può restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità preposta, essendo assimilabile all’esercizio di una attività sanzionatoria, sicché va condiviso l’indirizzo espresso dalla giurisprudenza che ha ritenuto, in più occasioni, argomentando analogamente, la perentorietà del termine per la conclusione del procedimento di natura sostanzialmente sanzionatoria.
Il caso di specie
Con la sentenza in esame, il Consiglio di Stato ha definito il giudizio avverso l’impugnazione di una deliberazione dell’ANAC adottata in esito a un procedimento di vigilanza in materia di contratti pubblici.
Nel 2014, nell’ambito delle iniziative per l’esposizione universale di Milano del 2015, veniva indetta una procedura aperta per l’affidamento dei lavori di realizzazione di una strada di collegamento, c.d. “Zara – Expo”. Il bando di gara prevedeva l’affidamento di un appalto “a corpo” da aggiudicare secondo il criterio del prezzo più basso e con automatica esclusione delle offerte anomale (alla gara, inserita nell’ambito delle iniziative per la realizzazione dell’Expo, si applicava una disciplina derogatoria dettata dal d.l. n. 43/2013: si v. in particolare art. 5).
Poiché durante l’esecuzione dell’appalto sorgeva la necessità di provvedere a delle varianti in corso d’opera, la stazione appaltante trasmetteva all’ANAC, ai sensi dell’art. 37 d.l. n. 90/2014 (“Trasmissione ad ANAC delle varianti in corso d’opera”: la norma è stata poi abrogata dall’art. 217, comma 1, lett. qq d.lgs. n. 50/2016), la documentazione prevista dalla legge.
Successivamente, l’ANAC avviava un procedimento di verifica dell’attività compiuta e, con la delibera impugnata, concludeva il procedimento (in ritardo rispetto ai termini previsti nel previgente “Regolamento sull’esercizio dell’attività di vigilanza in materia di contratti pubblici” del 15 febbraio 2017) ritenendo sussistenti una serie di supposte “gravi disfunzioni e irregolarità” nell’esecuzione dell’appalto. L’autorità, con la stessa delibera, invitava l’amministrazione municipale (Comune di Milano) e l’azienda incaricata dell’affidamento delle opere (Expo 2015 s.p.a.) a comunicare: “le misure che intendono adottare alla luce dei rilievi dinanzi evidenziati”, disponendo, altresì, la trasmissione dell’atto alla Procura regionale della Corte dei conti e alla Procura della Repubblica di Milano.
L’Ente locale e la società, a questo punto, rilevando nella delibera talune carenze istruttorie, inviavano congiuntamente una motivata istanza di riesame e di annullamento in autotutela, la quale però rimaneva senza esito. Pertanto, procedevano all’impugnazione – con due distinti ricorsi – della deliberazione dell’autorità anticorruzione.
All’esito del giudizio di primo grado, il TAR Lazio (TAR Lazio, Roma, sez. I, sentenza 14 dicembre 2021, n. 12902) dichiarava inammissibili le doglianze. Ciò in virtù della ritenuta non “lesività” dell’atto impugnato (ricondotto a una mera rappresentazione di giudizio con invito diretto alla stazione appaltante a esercitare i propri poteri di autotutela) e dunque della conseguente carenza di interesse a domandarne l’annullamento: “in ragione dell’assenza di un pregiudizio che possa derivare dalla sua adozione”.
Il TAR, più specificamente, segnalava che: “dalla lettura del dispositivo della delibera si evince, pertanto, molto chiaramente come l’ANAC non abbia adottato alcun atto di natura vincolante nei confronti dei ricorrenti, assumendo una delibera di natura interlocutoria con la quale si è richiesto agli stessi quali iniziative intendessero avviare senza offrire alcuna indicazione al riguardo, ma lasciando del tutto aperti gli eventuali esiti del procedimento, come, peraltro, rimarcato dagli stessi ricorrenti, che hanno contestato l’indeterminatezza di tale disposto.
L’atto impugnato, quindi, ha la medesima natura di un parere non vincolante, con il quale l’ANAC ha espresso delle valutazioni che possono eventualmente essere di impulso per l’esercizio da parte della stazione appaltante o di altre autorità dei propri poteri, ma che sono prive di autonoma consistenza lesiva. Tali conclusioni sono del resto coerenti con la natura di atto endoprocedimentale ravvisata a fronte di provvedimenti analoghi in precedenti pronunce di questo Tribunale (sez. I, 3 febbraio 2021, n. 1406; sez. II, 16 gennaio 2017, n. 725)”.
Inoltre, il giudice di prime cure aggiungeva: “né può dirsi che la delibera impugnata abbia acquistato autonoma portata lesiva in ragione delle conseguenze che ne sarebbero sortite (o potute sortire) a danno dei ricorrenti, in relazione al pregiudizio alla reputazione dalla stessa in ipotesi arrecato, potendosi così configurare quantomeno un interesse morale all’accoglimento del ricorso.
In proposito, va anzitutto rilevato che la sussistenza di una posizione di interesse morale non permette di riconoscere carattere di immediata e diretta lesività (intesa nel senso più sopra precisato) all’atto che di per sé ne sia privo in quanto inserito, come nella specie, in un più ampio contesto procedimentale.
Ma nemmeno potrebbe farsi valere, nella fattispecie, un ipotetico pregiudizio reputazionale e d’immagine, giacché in tal modo si addebiterebbe all’amministrazione una condotta lesiva non già di un interesse legittimo, ma del diritto soggettivo alla reputazione, con prospettazione, dunque, di una domanda fondata su una posizione giuridica ben diversa (TAR Lazio, sez. I, 3 febbraio 2021, n. 1406)”.
Stante il contenuto della sentenza, i ricorrenti decidevano quindi di proporre appello.
La decisione del Consiglio di Stato
Il Consiglio di Stato, all’esito, ha riformato la sentenza di prime cure.
Innanzitutto, il Collegio si è concentrato sulla tematica generale – comune, in realtà, agli atti di tutte le autorità indipendenti – del “valore giuridico” delle determinazioni, deliberazioni e misure di “soft law” adottate da tali soggetti. Poi, ha applicato questi concetti alle risultanze del caso concreto, verificando il contenuto della deliberazione impugnata. Infine, ha chiarito i motivi di illegittimità della decisione adottata dall’autorità di vigilanza.
Il Consiglio di Stato ha avviato il percorso argomentativo ricordando, in primo luogo, che l’ANAC, ai sensi dell’art. 213 d.lgs. n. 50/2016: “garantisce la promozione dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti, cui fornisce supporto […] nell’ambito dei poteri ad essa attribuiti”.
Essa, tra l’altro: “a) vigila sui contratti pubblici, anche di interesse regionale, di lavori, servizi e forniture nei settori ordinari e nei settori speciali e sui contratti secretati o che esigono particolari misure di sicurezza ai sensi dell’articolo 1, comma 2, lettera f-bis), della legge 6 novembre 2012, n. 190, nonché sui contratti esclusi dall’ambito di applicazione del codice; b) vigila affinché sia garantita l’economicità dell’esecuzione dei contratti pubblici e accerta che dalla stessa non derivi pregiudizio per il pubblico erario”.
Tale attività può comportare, ha chiarito il giudice, pure l’adozione di atti apparentemente non vincolanti (come infatti ritenuto dal TAR), sul cui contenuto è però necessario indagare.
Infatti, ha evidenziato il Consesso: “l’impugnabilità di una delibera non vincolante dell’ANAC non è da escludersi in senso assoluto, atteso che tale provvedimento potrebbe assumere connotazione lesiva tutte le volte in cui, riferendosi alla fattispecie concreta, di fatto incide sulla sfera giuridica dei destinatari, essendo idonea ad arrecare un vulnus diretto ed immediato. Ne consegue che la sua «lesività» non va valutata in astratto o sulla base dell’inquadramento dogmatico del provvedimento, dovendosi rilevare gli effetti conformativi che lo stesso produce, nell’immediato, nei confronti dei soggetti a cui è indirizzata”.
Dunque, a prescindere dall’inquadramento dogmatico (linee guida, pareri, raccomandazioni o atti aventi natura vincolante o meno), se le indicazioni dell’autorità (di tutte le autorità), nell’ambito del potere di vigilanza e controllo (in questo caso in materia di contratti pubblici), assumono il ruolo di canoni oggettivi a cui conformarsi e determinano: “un effetto immediatamente lesivo nella sfera giuridica del destinatario” (da verificarsi caso per caso), esse sono impugnabili.
Quindi: “quando le deliberazioni dell’ANAC contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati, in capo ai quali non residuano facoltà di modulazione quanto al contenuto e all’estensione, rappresentano provvedimenti lesivi nei confronti dei quali va garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario (art. 24 Cost.)”.
Se l’atto (considerato) immediatamente lesivo può essere impugnato immediatamente dinanzi al giudice (nei termini ex art. 119 d.lgs. n. 104/2010), viceversa, la contestazione di una “misura” non vincolante può essere ammessa solo quando sia fatta propria dall’amministrazione, il che vuol dire che l’abbia assunta nella relativa determinazione provvedimentale.
Ne consegue, ha riportato il giudice, che l’impugnazione del provvedimento è consentita (in questi casi) soltanto unitamente al provvedimento (della P.A.) che conclude il procedimento. Infatti: “la concreta lesività si manifesta solo nell’ipotesi in cui il parere non vincolante sia trasposto o richiamato nell’atto conclusivo del procedimento, potendo la sua incidenza sulla fattispecie essere valutata solo in relazione alla capacità di integrare la motivazione del provvedimento adottato dall’amministrazione. Pertanto, esso è impugnabile unitamente al provvedimento finale che lo recepisce e del quale diviene presupposto o laddove esso diventi segmento procedimentale”.
Il giudice, premesse queste considerazioni, ha poi, come accennato, verificato il contenuto della delibera contestata dal Comune di Milano e dalla società Expo 2015.
Nella specie, ha chiarito il Consiglio di Stato, dalla piana lettura del contenuto dell’atto, a prescindere dalla qualificazione giuridica che a questo si ritiene di attribuire: “si rileva un evidente obbligo conformativo, che non necessita dell’intermediazione di ulteriori provvedimenti attuativi, sicché deve prendersi atto della immediata lesività, nella misura in cui, come sottolineato dall’appellante, pone di fronte all’alternativa tra l’adeguarsi ai rilievi in essa contenuti o subirne le conseguenza a mezzo di successivi provvedimenti”.
Con la delibera impugnata, l’ANAC avrebbe reso una valutazione globale sull’intera procedura di gara, non limitata cioè alla valutazione delle sole «varianti», invitando il Comune di Milano e la società a comunicare: “le misure che intendono adottare alla luce dei rilievi dinanzi evidenziati” e suggerendo, altresì: “di conformarsi nella successiva attività alle modalità operative indicate, e contestualmente chiedendo di essere informata sulle azioni intraprese per l’allineamento con i rilievi espressi, sicché, nella sostanza, rappresentando un vincolo alle scelte che la pubblica amministrazione avrebbe inteso operare”.
Il tratto “lesivo” della deliberazione è stato poi rinvenuto nel collegamento tra contenuto dell’atto e ritardo nella sua adozione da parte dell’ANAC, avvenuta oltre il termine stabilito dal regolamento di vigilanza del 2017 per la conclusione dell’attività ispettiva e a lavori ormai realizzati.
Più precisamente, verificata la natura (vincolante) della deliberazione, il giudice ha specificato che, essendo l’atto non un semplice “parere” (o altro atto di natura interlocutoria), l’autorità avrebbe dovuto rispettare – per la sua adozione – i termini stabiliti dal regolamento di vigilanza del 2017, da intendersi in senso “perentorio”.
La regola della natura ordinaria dei termini procedimentali non espressamente qualificati come perentori, infatti: “non è applicabile ai procedimenti che conducono all’adozione di provvedimenti lesivi o sanzionatori, come si è chiaramente nella specie rilevato. Rispetto ai procedimenti che conducono a conseguenze pregiudizievoli, i termini sono sempre perentori, a prescindere da un’espressa qualificazione normativa dei relativi provvedimenti, essendo la perentorietà imposta dal principio di effettività del diritto di difesa e dal principio di certezza dei rapporti giuridici”.
L’esercizio di una potestà amministrativa che ha conseguenze pregiudizievoli di qualsiasi natura, pertanto, non può restare esposta sine die all’inerzia dell’autorità: “sicché va condiviso l’indirizzo espresso da questa Sezione che ha ritenuto, in più occasioni, argomentando analogamente, la perentorietà del termine per la conclusione del procedimento di natura sostanzialmente sanzionatoria”.
La peculiare natura giuridica dell’atto deliberativo avrebbe imposto la doverosità del rispetto dei termini di conclusione del procedimento, consentendo di dare effettività all’esercizio dei poteri di vigilanza (pure tramite l’apporto istruttorio dei controllati). Diversamente: “essendo intervenuta [la deliberazione] a lavori già terminati, non ha consentito neppure ai vigilati di tenere conto delle indicazioni e dei rilievi in essa contenuti, sicché il notevole ritardo ha determinato il fallimento del suo principale obiettivo, ossia quello di indirizzare l’attività dell’amministrazione”.
Il ritardo nell’emissione dell’atto, sebbene non abbia in alcun modo reso concreto l’esercizio del potere di vigilanza e controllo: “ha certamente inciso in maniera significativa nella sfera giuridica dei destinatari vigilati, anche a mezzo della disposta trasmissione dell’atto in questione alla Procura della Repubblica e alla Corte dei Conti”.
In conclusione, il giudice d’appello, in riforma della sentenza impugnata, ha accolto i ricorsi originariamente proposti disponendo così l’annullamento dell’atto.
Alcuni profili ricostruttivi
La sentenza, come si può notare, affronta la questione degli effetti giuridici prodotti dai (multiformi) atti delle autorità amministrative indipendenti (spesso indicati quali misure di regolazione “flessibile” o di c.d. “soft law”), che assumono veste (e contenuto) in virtù del tipo di funzione svolta al momento della loro adozione (regolazione, aggiudicazione, vigilanza, sanzionatoria ecc.).
Limitandoci all’ANAC, come noto, l’art. 213, comma 3 d.lgs. n. 50/2016 stabilisce che l’autorità: “attraverso linee guida, bandi-tipo, capitolati-tipo, contratti-tipo ed altri strumenti di regolazione flessibile, comunque denominati, garantisce la promozione dell’efficienza, della qualità dell’attività delle stazioni appaltanti, cui fornisce supporto anche facilitando lo scambio di informazioni e la omogeneità dei procedimenti amministrativi e favorisce lo sviluppo delle migliori pratiche”.
Gli atti possono quindi assumere la veste di linee guida, bandi-tipo, contratti-tipo, oppure di “strumenti” di difficile catalogazione (come i pareri, i comunicati, i protocolli di intesa), con un contenuto che può (anche) essere prescrittivo (poiché destinato a regolare una certa attività, risolvere un caso concreto imponendo misure o attività a carico dei vigilati, esercitare un funzione ispettiva ecc.) a seconda del tratto assunto. Ciò fa emergere la necessità di un’analisi dell’atto da parte del destinatario e del giudice in caso di impugnazione.
In generale, è difficile trarre dalla disamina della stratificata rete di strumenti delle autorità indipendenti indicazioni univoche sulla loro natura e, di conseguenza, sui loro effetti sul piano giuridico.
Le linee guida, per esempio, non sono un istituto o una categoria dogmatica come i regolamenti o i c.d. “atti amministrativi generali”. Sono un’etichetta apposta su contenitori diversi: le linee guida vincolanti (in quanto previste obbligatoriamente dalla legge per la disciplina di un certo aspetto del mercato affidato alla cura dell’autorità) rientrano nella categoria dei c.d. “atti di regolazione” (che non trova equiparazione con gli atti amministrativi generali: su tali aspetti, per tutti, si v. Cons. Stato, comm. spec., parere n. 855 del 1° aprile 2016).
Dottrina e giurisprudenza maggioritarie considerano, invece, le linee guida non vincolanti (quelle cioè adottate nell’esercizio della potestà di regolazione di cui sono titolari le autorità indipendenti in base alla legge) come atti amministrativi sprovvisti di natura normativa. Esse, non contenendo prescrizioni precettive e vincolanti erga omnes, appaiono prive del requisito dell’innovatività che è, invece, proprio degli atti normativi. Lungi dal fissare regole di carattere prescrittivo, si atteggiano soltanto quale strumento di “regolazione flessibile”, con funzione ricognitiva di princìpi di carattere generale e di ausilio interpretativo alle amministrazioni cui sono rivolte (su tali profili, Cons. Stato, sez. V, 22 ottobre 2018, n. 6026; TAR Lazio, Roma, sez. I, 15 luglio 2019, n. 9335).
Altri, invece, tendono ad accostare le linee guida non vincolanti a istituti ben noti nella tradizione del diritto amministrativo italiano, come le circolari o le direttive: l’elemento comune, in questi casi, andrebbe rinvenuto nella natura di “norme interne” all’amministrazione (anche se, nel caso delle linee guida, queste possono assumere rilevanza esterna quali “consigli” per l’orientamento dei comportamenti degli operatori del settore), comunque non in grado di produrre effetti vincolanti erga omnes (per approfondimenti, si v. F. CINTIOLI, Il sindacato del giudice amministrativo sulle linee guida, sui pareri del c.d. precontenzioso e sulle raccomandazioni di ANAC, in Dir. proc. amm., 2017, II, pp. 381 ss.; per un’interpretazione che equipara linee guida a circolari, anche se non riferita a quelle ANAC, si v. TAR Lazio, Roma, sez. I stralcio, 10 gennaio 2023, n. 338 e giurisprudenza ivi richiamata; sul valore delle circolari, invece, Cons. Stato, sez. IV, 28 gennaio 2016, n. 313).
Discussioni in parte analoghe possono essere svolte per i bandi-tipo o i contratti-tipo.
Tali strumenti, come si ricava dal citato art. 213, sono un parametro dell’azione amministrativa, nel senso che le stazioni appaltanti sono tenute a uniformarsi al loro contenuto (quindi, possiedono un tratto vincolante), mantenendo però una limitata facoltà discrezionale di deroga che necessita di puntuale motivazione. L’art. 71 d.lgs. n. 50/2016, a tal proposito, specifica che, al fine di agevolare l’attività delle stazioni appaltanti omogeneizzandone le condotte, successivamente all’adozione del bando-tipo le norme di gara sono redatte rispettando il loro contenuto. Le amministrazioni possono derogare alle clausole così “tipizzate”, ma motivando espressamente nella delibera a contrarre.
Dunque, al di là delle incertezze legate alla natura giuridica degli atti di regolazione “flessibile”, un elemento che si ricava con relativa sicurezza dalle disposizioni richiamate è che nel momento in cui il bando-tipo viene adottato, esso costituisce parametro di valutazione dell’attività delle stazioni appaltanti, nel senso che queste ultime sono tenute ad uniformarvisi, mantenendo (solo) una limitata facoltà discrezionale di deroga (si v. Cons. Stato, sez. V, 16 gennaio 2023, n. 526 che cita Corte cost., 12 luglio 2013, n. 187, relativamente ai bandi-tipo previsti dall’art. 64, comma 4-bis, d.lgs. n. 163/2006, ma con considerazioni valide anche in relazione a quelli previsti dall’attuale Codice).
C’è infine una categoria di atti “multiformi” che le autorità indipendenti possono adottare (come sopra accennato: pareri, comunicati, protocolli di intesa), il cui contenuto (vincolante o meno) deve essere verificato volta per volta.
Tra questi, in particolare, meritano un approfondimento (per ragioni espositive e perché di interesse soprattutto per gli operatori) quelli adottati dall’ANAC in sede di attività di vigilanza che assumono la forma di “pareri”.
Ai sensi dell’art. 211 d.lgs. n. 50/2016 (pareri c.d. di precontezioso), su iniziativa della stazione appaltante o di una delle altre parti, l’autorità esprime parere, previo contraddittorio: “relativamente a questioni insorte durante lo svolgimento delle procedure di gara, entro trenta giorni dal ricevimento della richiesta. Il parere obbliga le parti che vi abbiano preventivamente consentito ad attenersi a quanto in esso stabilito”. Il parere vincolante, precisa poi la norma, è impugnabile innanzi al giudice amministrativo nel rispetto dei termini stabiliti dall’art. 120 d.lgs. n. 104/2010.
In sede di precontenzioso, dunque, l’ANAC può esprimere pareri vincolanti e non vincolanti a seconda della volontà delle parti: il parere reso dall’autorità ai sensi dell’art. 211 d.lgs. n. 50/2016 senza che le parti abbiano (preventivamente) espresso la volontà di rispettarlo non è (e non può essere considerato) vincolante.
Secondo la giurisprudenza (si v. da ultimo Cons. Stato, sez. V, 7 marzo 2022, n. 1621), l’impugnabilità del parere vincolante è conseguenza naturale, sul piano costituzionale (art. 113 Cost.), del carattere decisorio e autoritativo della determinazione. Si tratta di atto che, in virtù delle conseguenze sostanziali pre-accettate dagli interessati, incide su posizioni di interesse legittimo di costoro: “perché essi hanno comunque interesse all’esercizio legittimo di quel particolare potere amministrativo” (nella sentenza si cita Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2018, n. 4529 e TAR Lazio, Roma, sez. II, 16 febbraio 2021, n. 1888).
In tale prospettiva, il parere può senza dubbio essere contestato dalla parte che si sia previamente obbligata alla sua osservanza, per la quale l’atto assume portata vincolante anche se l’altra parte, per contro, non si sia impegnata (si cfr. Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2018, n. 4529).
Esiste, poi, il parere non vincolante.
In questo caso, l’atto, possedendo il carattere di “manifestazione di giudizio” (così lo inquadra la giurisprudenza), non presenta aspetti di autonoma lesività e quindi non è (in teoria) autonomamente impugnabile (su tali profili, si v. Cons. Stato, sez. VI, 3 maggio 2010, n. 2503).
Come ritenuto dal Consiglio di Stato (sez. VI, 11 marzo 2019, n. 1622), l’impugnabilità del parere non vincolante non è però da escludersi in assoluto: “Esso, invero, assume connotazione lesiva tutte le volte in cui, riferendosi ad una fattispecie concreta, sia fatto proprio dalla stazione appaltante, la quale, sulla base di esso, abbia assunto la relativa determinazione provvedimentale”.
La giurisprudenza (si v. già TAR Lazio, Roma, sez. II, 2 marzo 2018 n. 2394), dunque, ritiene che l’atto non provvedimentale adottato dall’ANAC, pur non essendo idoneo ex se ad arrecare un vulnus diretto e immediato nella sfera del destinatario, lo diviene se e nella misura in cui integri la motivazione del provvedimento finale.
Dunque, la concreta lesività si manifesta solo nell’ipotesi in cui esso sia trasposto o richiamato nell’atto conclusivo del procedimento, potendo, la sua incidenza sulla fattispecie, essere valutata solo in relazione alla capacità di integrare la motivazione del provvedimento.
Lo stesso non è pertanto sottratto al sindacato giurisdizionale, che è differito al momento in cui si dà luogo alla lesione della posizione giuridico-soggettiva dell’interessato tramite l’atto della P.A. con cui si chiude il procedimento (o una sua articolazione nelle procedure c.d. “pluristrutturate”).
Infine, la ritenuta impugnabilità del parere non vincolante in uno all’atto applicativo che lo abbia recepito, non comporta, si noti: “che la mancata impugnazione dello stesso si riverberi in termini negativi nel senso di inammissibilità dell’impugnativa dell’atto applicativo, potendo semmai, avuto riguardo alla possibile eterointegrazione per relationem della motivazione del provvedimento applicativo che lo abbia anche in parte fatto proprio, riflettersi sul prospettato difetto di motivazione, non potendo eventualmente ritenersi adeguatamente censurata la parte motivazionale del provvedimento applicativo” (Cons. Stato, sez. V, n. 1621/2022, cit.).
Note sulla sentenza.
A questo punto, è utile fare delle brevi considerazioni conclusive.
La sentenza qui commentata è di sicuro interesse perché, partendo da un’indagine sul contenuto di un atto posto in essere in esito all’attività di vigilanza condotta dall’ANAC (atto che non è stato neppure qualificato quale parere, ma di “mera rappresentazione di giudizio”) giunge a formulare alcuni principi che, in qualche modo, chiudono il “cerchio” sul tema degli effetti che la (multiforme) natura degli atti delle autorità indipendenti può provocare sui soggetti destinatari.
In particolare, risulta interessante l’affermazione per cui, a prescindere dall’inquadramento dogmatico (linee guida, raccomandazioni, pareri aventi natura vincolante ecc.), se le indicazioni dell’autorità indipendente, in esito all’esercizio dei suoi poteri (non solo quelli di vigilanza e controllo), assumono il significato di canoni oggettivi a cui conformarsi determinando un effetto immediatamente lesivo nella sfera giuridica del destinatario (lesione che ovviamente va dimostrata), le stesse sono direttamente impugnabili.
Dunque, quando le deliberazioni di un’autorità indipendente contengono vincoli conformativi puntuali alla successiva attività dei soggetti vigilati – ai quali non residuano facoltà di modulazione (di tale attività) quanto a contenuto ed estensione – tali atti sono provvedimenti immediatamente impugnabili, nei confronti dei quali va pertanto garantita la tutela del diritto di difesa del destinatario (art. 24 Cost.).
Altro punto importante è che l’atto dell’autorità amministrativa di portata “lesiva” (o meglio, astrattamente lesiva) deve essere rilasciato in esito a un procedimento nel quale sia stato garantito l’apporto istruttorio dei destinatari dell’atto e, soprattutto, il rispetto dei termini procedimentali stabiliti dalle norme.
In tal senso, riporta il Consiglio di Stato con valutazione condivisibile, rispetto ai procedimenti che conducono a conseguenze pregiudizievoli, i termini sono sempre perentori, a prescindere da un’espressa qualificazione normativa dei relativi provvedimenti (e, aggiungiamo noi, dei relativi termini), essendo la perentorietà imposta dal principio di effettività del diritto di difesa e dal principio di certezza dei rapporti giuridici.
Pertanto, il provvedimento che non rispetta il termine di conclusione del procedimento appare viziato perché incide sulla posizione giuridica del destinatario attraverso l’incertezza dello spazio temporale di manifestazione del potere (da cui ne deriva, a cascata, la precarietà della condizione che dipende dalla manifestazione di volontà della P.A.), fattore che, oggi più di ieri, è elemento imprescindibile per la valutazione dell’agire amministrativo.
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