Lo chiarisce l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con la Sentenza 3.7.2017, n. 3.
Le due tesi contrapposte che hanno reso necessario l’intervento chiarificatore dell’Adunanza Plenaria sono quella dell’automatismo (tesi formalistica) e quella della verifica in concreto (tesi sostanzialistica) degli effetti della cessione.
Secondo il primo orientamento (Cons. St., Sez. IV, 29.2.2016, nn. 811, 812 e 813; Id., Sez. III, 12.11.2014, n. 5573 e 7.5.2015, n. 2296) in seguito ad una cessione di ramo d’azienda il cedente perderebbe automaticamente la qualificazione.
La tesi contraria (sostenuta da Cons. St., Sez. V, 18.10.2016, nn. 4347 e 4348) invece esclude qualsiasi automatismo e ritiene doverosa una verifica in concreto dell’entità dei beni e dei rapporti trasferiti con il negozio traslativo al fine di accertare se di vero e proprio trasferimento di ramo di azienda si sia trattato e non piuttosto del trasferimento di singoli cespiti.
Con la Sentenza in rassegna l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha risolto il conflitto esprimendo condivisione per la tesi sostanzialistica e valorizzando il dato testuale dell’art. 76, co. 11, d.P.R. n. 207/2010, in base al quale “se il cessionario non acquista automaticamente la qualificazione, simmetricamente deve escludersi che il cedente possa automaticamente perderla”.
Alla base dell’articolata decisione vi è un semplice sillogismo: nei casi in cui un contratto traslativo non produce ipso iure l’acquisto del diritto in capo all’avente causa, non può produrre ipso iure la sua perdita in capo al dante causa. In particolare, “l’effetto traslativo non opera secondo la configurazione tipica; nella fattispecie in esame, infatti, l’efficacia traslativa tipica riguarda l’azienda, non le qualificazioni, poiché non necessariamente le parti hanno inteso disporre contestualmente al trasferimento aziendale il trasferimento dei requisiti di qualificazione ed in ogni caso, appunto, l’effetto traslativo dei requisiti è condizionato ad ulteriori elementi estranei alla volontà delle parti”.
È infatti ben possibile che la cessione di parti dell’azienda, ancorché qualificate come ramo aziendale, si riferisca a porzioni prive di autonomia funzionale nel contesto dell’impresa e comunque non significative, quindi non sia tale da generare la perdita in capo al cedente (e il correlato acquisto in capo al cessionario) dei requisiti di qualificazione.
Sulla scorta di tali considerazioni, conclude dunque l’Adunanza Plenaria che “l’art. 76, comma 11, del D.P.R. n. 207/2010 deve essere interpretato nel senso che la cessione del ramo d’azienda non comporta automaticamente la perdita della qualificazione, occorrendo procedere a una valutazione in concreto dell’atto di cessione, da condursi sulla base degli scopi perseguiti dalle parti e dell’oggetto del trasferimento”.
Quanto alla valutazione in concreto, il Consiglio di Stato precisa che si tratta di un accertamento che potrà avvenire tanto in sede di verifica periodica (cfr. art. 77 d.P.R. n. 207/2010 e art. 84, co. 11, D. Lgs. n. 50/2016) che di verifica straordinaria su segnalazione dell’A.N.AC., di una stazione appaltante o delle altre imprese partecipanti alla gara (cfr. art. 86, co. 6, D. Lgs. n. 50/2016).
La prevalenza della tesi sostanzialistica è inoltre ulteriormente corroborata dallo stesso ruolo di vigilanza dell’A.N.AC. sul sistema di qualificazione, nell’esercizio del quale l’Autorità già nel 2014 con l’introduzione del Manuale sull’attività di qualificazione del 28.10.2014, aveva imposto una serie di rigorosi criteri volti a regolare proprio l’attestazione delle imprese sulla base di atti di cessione d’azienda.
Il capitolo IV del predetto Manuale, rubricato proprio “Qualificazione mediante utilizzo dei requisiti rivenienti da trasferimenti aziendali” prevede infatti che il complesso aziendale idoneo a consentire all’impresa avente causa della cessione la spendita dei relativi requisiti deve essere caratterizzato da una capacità produttiva “attuale che consenta al successore di proseguire nell’attività aziendale già avviata senza necessità di una ricostituzione”.
Già nel 2014 dunque l’A.N.AC., preconizzando l’intervento dell’Adunanza Plenaria, aveva ravvisato la necessità di un accertamento in concreto su qualsiasi atto di cessione o affitto di azienda o di ramo al fine di determinare l’attuale potenziale qualificante del compendio trasferito per il cessionario e le conseguenze del trasferimento sul piano dei requisiti della cedente.
Pubblicato il 03/07/2017
00003/2017REG.PROV.COLL.
00002/2017 REG.RIC.A.P.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso in appello n. 2 di A.P. del 2017, proposto da:
G. Spa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati S. V., E. B., M. C., con domicilio eletto presso lo studio S. V. in Roma, OMISSIS;
contro
Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale OMISSIS, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato R. V., con domicilio eletto presso lo studio L. N. in Roma, OMISSIS;
nei confronti di
Spa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati M. C. e R. F., con domicilio eletto presso lo studio M. C. in Roma, OMISSIS;
S.C. Srl non costituito in giudizio;
e con l’intervento di
ad adiuvandum:
E. S.p.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati F. T., C. V., G.L.. P., con domicilio eletto presso lo studio F. T. in Roma, OMISSIS;
M. S.C.P.A., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati F. T., G.L.. P., C. V., con domicilio eletto presso lo studio F. T. in Roma, OMISSIS;
G.I. Srl, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati S. S.D., S. T., A. Di M., con domicilio eletto presso lo studio S. S.D. in Roma, OMISSIS;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. Campania, sede di Napoli – sezione I n. 2751/2016, concernente affidamento lavori di manutenzione del patrimonio immobiliare ed impiantistico con annessi servizi di conduzione e gestione dei presidi ospedalieri.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale OMISSIS e di S. Spa;
Visti gli atti di intervento di E. S.p.A., M. S.C.P.A., G.I. Srl;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 giugno 2017 il Cons. Francesco Bellomo e uditi per le parti gli avvocati B. E., V. C., V. R., C. M., F. R. T. F., P. G.L.., S.D. S., T. S.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
Nel 2012 l’Azienda Ospedaliera di rilievo nazionale S.P. indiceva una gara per l’affidamento dei lavori di manutenzione del patrimonio immobiliare ed impiantistico con annessi servizi di conduzione e gestione dei presidi ospedalieri P., S., A. e della propria sede amministrativa, con durata pluriennale e importo base dell’appalto pari complessivamente ad euro 28.500.000, oltre iva.
La selezione si articolava in una fase di prequalifica e nella successiva procedura ristretta. Tra i requisiti di partecipazione figurava il possesso delle attestazioni SOA per le categorie OG1 e OG11 (par. III, punto 2.1.2 del bando di gara).
Nella propria domanda di prequalifica la società S. affermava il possesso dei requisiti attestati il 9 novembre 2010 da P. SOA (validità fino all’8 novembre 2013).
I lavori della commissione di prequalifica si concludevano con l’ammissione di otto concorrenti, tra i quali S. s.p.a. e G. s.p.a., e gli atti relativi venivano approvati con delibera del Direttore Generale n. 321 del 19 giugno 2013.
Alla successiva procedura ristretta prendevano parte tre dei concorrenti che avevano superato la fase di prequalifica, precisamente la S. s.p.a. (che, nel frattempo, si era associata in a.t.i. con la S.C. s.r.l.), il r.t.i. G. s.p.a. e G. s.r.l., l’a.t.i. C.C. soc. coop. e N.s.p.a.
Nella propria domanda di partecipazione alla procedura ristretta la S. allegava l’attestazione n. 13307/11/00 rilasciata da P. SOA il 7 novembre 2013, che confermava il possesso della qualificazione per le categorie OG1 e OG11.
Nella seduta del 17 giugno 2015 la commissione aggiudicava in via provvisoria l’appalto all’a.t.i. S. s.p.a. (prima classificata), seguita dall’a.t.i. G. (seconda classificata).
Successivamente l’amministrazione procedeva alla verifica dei requisiti ex artt. 38 e 48 del Codice degli Appalti pubblici, acquisendo l’attestazione n. 15342/11/00 rilasciata da P. SOA il 31 marzo 2015, che ribadiva il possesso in capo alla S. della qualificazione per la categoria OG11.
Con delibera n. 442 del 5 novembre 2015 l’appalto veniva aggiudicato in via definitiva alla medesima, con la quale, in data 19 febbraio 2016, l’amministrazione stipulava il contratto d’appalto.
1.1 L’aggiudicazione era impugnata dinanzi al Tar Campania dalla società G., che ne domandava l’annullamento sul presupposto che la S. avesse perduto la qualificazione nella categoria OG11 in conseguenza del contratto di cessione del ramo d’azienda stipulato il 28 dicembre 2012 con G.I. s.r.l., relativo alla gestione integrata di complessi immobiliari pubblici e privati, comprensiva delle attività di property management e facility management. In sintesi – secondo la ricorrente – la S. avrebbe dovuto essere esclusa poiché nel periodo compreso tra la domanda di partecipazione alla gara e la successiva presentazione dell’offerta aveva perso la qualificazione per la categoria OG11, parte integrante del ramo d’azienda ceduto.
La S., oltre ad eccepire l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso, proponeva ricorso incidentale avverso l’ammissione o mancata esclusione della G. per violazione degli artt. 86 e 87 del d.lgs. n. 163/2006 (omessa indicazione degli oneri di sicurezza interni nella propria offerta economica), violazione dell’art. 24 del D.P.R. n. 207/2010 (mancata presentazione nel progetto definitivo dell’elaborato “censimento e progetto di risoluzione delle interferenze”), violazione dell’art. 46 del d.lgs. n. 163/2006, violazione della lettera di invito, eccesso di potere per difetto di istruttoria, violazione del giusto procedimento, indeterminatezza dell’offerta tecnica.
1.2 Il Tar Campania esaminava con priorità il ricorso principale – in quanto diretto a colpire la fase di prequalifica, antecedente rispetto a quella della procedura ristretta censurata dal ricorso incidentale – e lo giudicava infondato, dichiarando pertanto improcedibile il ricorso incidentale.
Ad avviso del Tar, premessa l’esistenza in giurisprudenza di due contrapposti orientamenti in ordine agli effetti della cessione d’azienda sulla qualificazione posseduta dalla cedente, il giudizio non poteva «prescindere dagli esiti del procedimento ex art. 40, comma 9 ter, del D.Lgs. n. 163/2006 avviato dall’ANAC nei confronti della P. SOA (attualmente SOA Group s.p.a.) per il riesame dei requisiti che avevano dato luogo al rilascio dell’attestazione n. 13307/11/00 del 7 novembre 2013: tale attività istruttoria è stata sollecitata dall’ANAC alla luce proprio della cessione del ramo d’azienda del 28 dicembre 2012 e delle pronunce giurisprudenziali riportate che avevano ravvisato in tale atto negoziale una soluzione di continuità nel possesso del requisito di qualificazione in capo a S. s.p.a. ».
In particolare, il giudice di primo grado rammentava che il 9 marzo 2016 il Consiglio dell’Autorità aveva deliberato di non procedere ad alcuna integrazione delle annotazioni presenti sul casellario informatico di cui all’art. 8 del D.P.R. n. 207/2010, validando la conclusione del possesso continuo in capo a S. s.p.a. del requisito di qualificazione.
2. Avverso la sentenza ha proposto appello la società G., censurando il ragionamento del T.A.R. inteso a valorizzare la conferma postuma della qualificazione di cui all’attestazione SOA del 7 novembre 2013, smentito da diversi pronunciamenti del Consiglio di Stato, aventi ad oggetto proprio la cessione del ramo aziendale da parte di S. e i relativi effetti in ordine alla qualificazione.
In particolare, nella sentenza n. 5573/2014 della III Sezione si è affermato che «nel caso di cessione di ramo d’azienda né il cedente né il cessionario possono valersi dell’attestazione di qualificazione posseduta dall’azienda ceduta, pur potendone richiedere una nuova alla società di attestazione». Né potrebbe darsi rilievo alla conferma dei requisiti operati dalla SOA in sede di verifica triennale, poiché essa giammai potrebbe avere un effetto sanante, stante l’effetto traslativo della cessione.
A prevenzione dell’obiezione della controparte circa l’ininfluenza in concreto sui requisiti di qualificazione della cessione del ramo d’azienda, siccome di modesta entità, l’appellante risponde sottolineando che l’importanza del compendio ceduto non può essere accertata mediante verifica ex post, bensì sottoposta a specifica valutazione ex ante da parte della SOA a mezzo del procedimento ex art. 76, comma 11, del D.P.R. n. 207/2010 (in tal senso militerebbero anche le decisioni n. 811, 812 e 813/2016 della IV sezione del Consiglio di Stato)
Sarebbe del resto inapplicabile in via analogica la regola dell’utilizzabilità dell’attestazione SOA nelle more della verifica triennale (ferma restando la subordinazione dell’efficacia dell’aggiudicazione al riscontro dell’esito positivo), poiché tale speciale effetto potrebbe, a tutto concedersi, conseguire alla tempestiva e leale comunicazione alla stazione appaltante, che nel caso di specie però è mancata.
2.1 Si è costituita per resistere all’appello la S., che in successive memorie ha:
– proposto appello incidentale, reiterando i contenuti del ricorso incidentale di primo grado;
– riproposto le eccezioni assorbite in primo grado, tra cui l’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE per conoscere: «se l’interpretazione della disciplina di cui all’art. 76, comma 11, d.P.R. n. 207/2010, fatta propria dalle sentenze del Consiglio di Stato nn. 811, 812 e 813 del 2016, sia o meno compatibile con il diritto comunitario e in particolare con l’art. 52, commi 3 e 4, della direttiva 2004/18/CE (e l’art. 64, commi 4 e 5, della direttiva 2014/24/UE in corso di recepimento), nonché con i principi di proporzionalità e di non discriminazione di cui al considerando n. 2 e all’art. 18, par. 1, comma 1, della direttiva 2004/18/CE». Ciò perché le citate pronunce, pur senza evidenziare la perdita da parte di S. dei requisiti sostanziali di qualificazione (il cui possesso è stato peraltro accertato in sede di verifica triennale della attestazione), concludono nel senso che essa abbia perso la qualificazione OG11, sul postulato che la cessione di ramo d’azienda determini automaticamente la perdita di efficacia alle certificazioni SOA, indipendentemente da quali e quanti requisiti vengano realmente trasferiti;
– rilevato la peculiarità della vicenda di causa rispetto a quelle oggetto dei citati precedenti, poiché il presunto difetto del requisito si è verificato nella fase di prequalifica e non al momento della partecipazione alla gara;
– contestato le argomentazioni dell’appellante, rilevando, da un lato, come le pronunce sfavorevoli della IV sezione siano state impugnate tanto con ricorso per cassazione, quanto con ricorso per revocazione, dall’altro che successivamente ad esse il Consiglio di Stato, V sezione, ha rimeditato la propria posizione, sulla base di una valutazione complessiva dell’operazione negoziale conclusa tra essa e G.I. s.r.l. e della conferma della qualificazione da parte di P. SOA, validata dall’ANAC.
Su tutti questi punti ha replicato diffusamente l’appellante.
Si è costituita in giudizio anche la stazione appaltante, riproponendo le eccezioni pregiudiziali avanzate in primo grado e domandando comunque il rigetto dell’appello.
2.2 All’esito dell’udienza del 12 gennaio 2017 la III Sezione, ravvisando un contrasto di giurisprudenza in ordine alla perdita del requisito quale effetto automatico del contratto di cessione di un ramo d’azienda (financo nell’ipotesi in cui, a seguito della verifica triennale da parte della SOA, i requisiti di qualificazione siano confermati), ha deferito all’Adunanza Plenaria le seguenti questioni:
1) «Se, ai sensi dell’art. 76, comma 11, del d.P.R. n. 207/2010 debba affermarsi il principio per il quale, in mancanza dell’attivazione del procedimento ivi contemplato (in sostanza, nuova richiesta di attestazione SOA), la cessione del ramo d’azienda comporti sempre, in virtù dell’effetto traslativo, il venir meno della qualificazione, o piuttosto, se debba prevalere la tesi che alla luce di una valutazione in concreto limita le fattispecie di cessione, contemplate dalla disposizione, solo a quelle che in quanto suscettibili di da dar vita ad un nuovo soggetto e di sostanziarne la sua qualificazione, presuppongono che il cessionario [il cedente n.d.r.] se ne sia definitivamente spogliato, ed invece esclude le diverse fattispecie di cessione di parti del compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate dalle parti come trasferimento di “rami aziendali”, si riferiscano, in concreto, a porzioni prive di autonomia funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al soggetto cedente [il cessionario n.d.r.] di ottenere la qualificazione».
2)«Se l’accertamento effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, valga sempre e solo per il futuro, oppure se, nei casi in cui l’organismo SOA accerti ex post il mantenimento dei requisiti speciali in capo al cedente, nonostante l’avvenuta cessione di una parte del compendio aziendale, l’attestazione possa anche valere ai fini della conservazione della qualificazione senza soluzione di continuità».
2.3 In prossimità dell’udienza di discussione hanno depositato memoria conclusionale G. e S. e sono intervenute ad adiuvandum dell’appellanteE. S.p.a. e M. s.c.p.a.
L’interesse dichiarato di queste ultime si lega al ricorso deciso dal Tar di Roma con sentenza n. 2679/2017, proposto per l’annullamento della nota CONSIP S.p.A. prot. n. 23324/2016 del 30/09/2016, con cui è stata comunicata l’aggiudicazione definitiva nei confronti di S. s.p.a. in relazione al Lotto 13 della “gara a procedura aperta per l’affidamento di un Multiservizio Tecnologico Integrato con Fornitura di Energia per gli Edifici in uso, a qualsiasi titolo, alle Pubbliche Amministrazioni Sanitarie, Edizione 2 – ID 1379” e della citata aggiudicazione.
Infatti, con il primo motivo del ricorso le predette società avevano sollevato la questione oggetto del presente giudizio, sostenendo che l’aggiudicazione disposta in favore di S. era da considerare illegittima in quanto la stessa aveva perduto le necessarie qualificazioni (in particolare quella OG11) a seguito della cessione del ramo di azienda a G.I. s.r.l.
Il ricorso è stato respinto sull’assunto che «Nel caso di specie, avuto riguardo al complesso dei beni ceduti, deve ritenersi che la cessione non abbia fatto venire meno i requisiti necessari per mantenere l’attestazione SOA, sicché l’attestazione presentata da S. SpA in corso di gara è stata correttamente ritenuta valida ed efficace».
Snodo centrale della decisione è la tesi che «non necessariamente un ridimensionamento dei requisiti determina l’impossibilità di mantenere l’attestazione in capo al cedente, se i requisiti che hanno consentito l’ottenimento della SOA non sono ceduti, con la conseguenza che l’attestazione SOA mantiene la propria validità».
È intervenuta ad adiuvandum dell’appellante anche G.I. s.r.l., la quale, in estrema sintesi, sostiene che il contratto stipulato con S. configura una cessione “vitale” di ramo d’azienda, come tale suscettibile di determinare il trasferimento delle qualificazioni.
Hanno depositato memorie di replica G. e S..
In particolare S. ha eccepito l’inammissibilità degli interventi di E. S.p.a. e M. s.c.p.a., siccome fondati esclusivamente sull’identità della questione giuridica oggetto del presente giudizio con quella sottesa al giudizio di cui esse sono parti.
S. ha eccepito altresì l’inammissibilità dell’intervento di G.I. s.r.l., con la quale non pende più alcuna controversia e che oltretutto appartiene al medesimo centro di interessi di E. S.p.a. (STI S.p.a.).
La causa è passata in decisione all’udienza del 21 giugno 2017.
DIRITTO
1. Gli interventi sono inammissibili.
Stabilisce l’art. 28 c.p.a. che:
“1. Se il giudizio non è stato promosso contro alcuna delle parti nei cui confronti la sentenza deve essere pronunciata, queste possono intervenirvi, senza pregiudizio del diritto di difesa.
2. Chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova.
3. Il giudice, anche su istanza di parte, quando ritiene opportuno che il processo si svolga nei confronti di un terzo, ne ordina l’intervento”.
Stabilisce l’art. 97 c.p.a. che:
“Può intervenire nel giudizio di impugnazione, con atto notificato a tutte le parti, chi vi ha interesse”.
E. s.p.a., M. s.c.p.a., G.I. s.r.l. dichiarano la titolarità di un interesse “mediato”, non suscettibile di essere difeso in via autonoma, ma idoneo a legittimare un intervento adesivo dipendente (art. 28, comma 2 c.p.a.).
L’intervento previsto in tale ipotesi è volontario, giacché non dipende dalla richiesta delle parti o dall’ordine del giudice; adesivo, perché è a sostegno della posizione di una delle parti; dipendente, in quanto esercitato a tutela di un interesse che non è direttamente toccato – in senso favorevole o sfavorevole – dal provvedimento impugnato (dalla sentenza appellata), purché non sia di mero fatto, ossia non qualificato in alcun modo dall’ordinamento giuridico.
In particolare sono legittimati a proporre intervento ad adiuvandum i titolari di posizioni soggettive dipendenti da quella del ricorrente (appellante), o, comunque, coloro che vantino un interesse indiretto alla demolizione degli effetti prodotti dall’atto impugnato (sentenza appellata), che si riflettono negativamente sulla propria posizione giuridica.
Non rientra in tali categorie nessuno degli interventi in esame.
Non quelli – analoghi – di E. S.p.a. e M. s.c.p.a., le quali non hanno nessun elemento fattuale di collegamento con la posizione dell’appellante e con la controversia, ma solo una comunanza di ragioni giuridiche astratte.
La solidarietà di ragioni giuridiche astratte non può legittimare un intervento adesivo dipendente, essendo ciò in contrasto:
a) con lettera della legge (l’interesse deve avere ad oggetto il “giudizio”, dunque la causa petendie il petitum);
b) con il sistema (le ipotesi di intervento volontario contemplate dall’ordinamento giuridico postulano una connessione materiale con l’oggetto della controversia, mentre in assenza di questo requisito è possibile solo l’intervento su ordine del giudice per ragioni di opportunità);
c) con la finalità dell’istituto (l’intervento è una tecnica di tutela dettata da ragioni di efficienza processuale, che sarebbero compromesse qualora fosse ammesso per tutti coloro che sono coinvolti in giudizi aventi ad oggetto la medesima questione giuridica).
Né a diversa conclusione può pervenirsi in ragione della circostanza che la questione che interessa E. S.p.a. e M. s.c.p.a. è stata deferita all’Adunanza Plenaria.
Al contrario, proprio l’Adunanza Plenaria (sentenza n. 23 del 2016) ha affermato: «non sembra che possa essere sufficiente a consentire l’istanza di intervento la sola circostanza per cui il proponente tale istanza sia parte in un giudizio in cui venga in rilievo una quaestio iuris analoga a quella divisata nell’ambito del giudizio principale. A tacere d’altro, sembra ostare in modo radicale a tale riconoscimento l’obiettiva diversità di petitum e di causa petendi che distingue i due procedimenti, sì da non configurare in capo al richiedente uno specifico interesse all’intervento nel giudizio ad quem. Al contrario, laddove si ammettesse la possibilità di spiegare l’intervento volontario a fronte della sola analogia fra le quaestiones iuris controverse nei due giudizi, si finirebbe per introdurre nel processo amministrativo una nozione di ‘interesse’ del tutto peculiare e svincolata dalla tipica valenza endoprocessuale connessa a tale nozione e potenzialmente foriera di iniziative anche emulative, in toto scisse dall’oggetto specifico del giudizio cui l’intervento si riferisce. Non a caso, del resto, in base a un orientamento del tutto consolidato, nel processo amministrativo l’intervento ad adiuvandum o ad opponendum può essere proposto solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale (sul punto -ex multis-: Cons. Stato, IV, 29 febbraio 2016, n. 853; id., V, 2 agosto 2011, n. 4557) ».
A ciò può aggiungersi che il vincolo nascente dalle pronunce della Plenaria non è assoluto (cfr. art. 99, comma 3 c.p.a.) e che, comunque, l’assenza di un meccanismo procedurale che preveda la costituzione nei giudizi dinanzi alla Plenaria per coloro i quali, coinvolti in controversie analoghe, possano essere pregiudicati dalla decisione di diritto, è il frutto di una scelta discrezionale del legislatore, che tiene conto anche di esigenze di efficienza processuale.
Analogamente, nei giudizi dinanzi alla Corte Costituzionale vige la regola della coincidenza con le parti del processo a quo, ammettendosi la deroga solo a favore di soggetti titolari di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio (sentenza n. 279/2006). In più occasioni la Corte Costituzionale, in forza del carattere incidentale del giudizio di costituzionalità, ha dichiarato inammissibile l’intervento di terzi che ricoprivano la qualità di parte in altri giudizi aventi ad oggetto controversie identiche o analoghe e che erano stati sospesi in attesa della decisione del Giudice della legge (sentenza n. 470/2002, ordinanza n. 179/2003, sentenza n. 190/2006).
Ancorché diversa, la posizione di G.I. s.r.l. pure non legittima l’intervento: essa è parte del contratto di cessione d’azienda, come tale interessata a far valere gli effetti di tale contratto. Ma non solo è del tutto estranea al presente giudizio, quanto pure non (più) coinvolta in altri giudizi aventi ad oggetto tale contratto. Sicché, in disparte la questione se la cessionaria d’un ramo di azienda vanti interesse alla riforma di una sentenza che – per decidere sulla legittimità di un’aggiudicazione – abbia dato una certa qualificazione del contratto di cessione, l’eventuale interesse ad intervenire ad adiuvandum non sarebbe attuale.
Né miglior sorte ha la – diversa – argomentazione formulata da G.I. s.r.l. nella memoria depositata in prossimità dell’udienza di discussione, secondo cui l’intervento sarebbe giustificato dal ricorso n. 8717 del 2015 proposto da S. dinanzi al Tar Lazio per l’annullamento dell’annotazione presente nel casellario informatico gestito da ANAC che qualifica il contratto tra esse stipulato come cessione di un ramo aziendale. A tacer d’altro, tale questione è irrilevante nel caso in esame, dove non si discute se il contratto traslativo abbia ad oggetto un intero ramo aziendale o singoli cespiti patrimoniali (profilo accantonato dalla sentenza appellata), ma della persistenza o meno delle qualificazioni in capo a S., che ben può sussistere anche qualificando il contratto come cessione di un ramo d’azienda. L’ordinanza di rimessione, anzi, fa riferimento proprio a questa ipotesi.
2. Venendo all’esame della questione rimessa alla Plenaria, è utile ripercorrere brevemente i termini del contrasto di giurisprudenza e la posizione fatta propria dall’ordinanza di rimessione.
2.1 La tesi dell’automatismo è sostenuta da Cons. Stato, sez. IV, 29 febbraio 2016, n. 811, n. 812 e n. 813 (in precedenza negli stessi termini sez. III, 12 novembre 2014, n. 5573 e 7 maggio 2015, n. 2296): nel caso di cessione di ramo d’azienda il cedente perde automaticamente le qualificazioni, ancorché resti “per avventura” in dotazione di requisiti sufficienti per una determinata qualificazione, poiché ciò non lo esonera dal chiedere a una Società Organismo di Attestazione l’attestazione di qualificazione, che a norma dell’art. 60, comma 2, d.P.R. n. 207/2010 costituisce condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini dell’affidamento di lavori pubblici. Secondo questo orientamento non potrebbe darsi rilievo alla conferma ex post dei requisiti operati dalla SOA in sede di verifica triennale, poiché essa giammai potrebbe avere un effetto sanante, stante l’effetto traslativo della cessione. Al contempo l’importanza e l’entità del compendio ceduto non potrebbe essere accertata mediante verifica ex post, bensì dovrebbe essere necessariamente sottoposta a specifica valutazione ex ante da parte della SOA a mezzo del procedimento ex art. 76, comma 11, del D.P.R. n. 207/2010.
La tesi contraria è sostenuta da Cons. Stato, sez. V, 18 ottobre 2016, n. 4347 e n. 4348: è ammissibile la verifica in concreto della entità dei beni e rapporti trasferiti con il negozio traslativo al fine di accertare se di vero e proprio trasferimento di ramo di azienda si sia trattato o non piuttosto di trasferimento di singoli cespiti; al contempo alla verifica triennale positiva di validità della attestazione SOA, successiva al negozio traslativo, deve riconnettersi non l’effetto di una rinnovazione ex nunc della validità del precedente certificato quanto piuttosto la attestazione della sua perdurante validità, senza soluzione di continuità. Pertanto deve escludersi che ogni trasferimento di ramo aziendale comporti comunque l’automatica decadenza dalla titolarità delle attestazioni SOA anche se il cedente non perde la consistenza che gli ha consentito di ottenerne il rilascio, come poi accertato in sede di verifica triennale. A tale tesi aderisce Cons. Stato, sez. III, 9 gennaio 2017, n. 30, secondo cui «occorre escludere in linea di principio a danno del cedente qualsiasi automatismo decadenziale conseguente alla cessione d’azienda, intendendosi con ciò affermare che occorre aver riguardo alla causa in concreto del negozio di cessione e al sottostante regolamento di interessi voluto dalle parti, in tutta la sua ampiezza, complessità e particolarità, per determinare se la cessione dei beni aziendali comporti, o meno, la perdita dei requisiti di cui alle attestazioni SOA in capo alla cedente» (idem, sez. V, n. 5706 del 17 dicembre 2015).
Per comodità narrativa e assonanza concettuale si può definire la prima tesi “formalistica” (essendo rigidamente ancorata al principio del consenso traslativo ed alla concezione astratta della causa contrattuale), la seconda “sostanzialistica” (fondandosi su un approccio concreto al contenuto negoziale e sulla vincolatività della conferma dell’attestazione SOA).
In sintesi, la diversità di opinioni sul punto, all’interno del Consiglio di Stato, appare netta ed equamente suddivisa, ma l’indirizzo più recente propende per la tesi sostanzialistica.
La giurisprudenza di primo grado appare prevalentemente orientata a favore della tesi sostanzialistica, ribadita da ultimo dalla citata pronuncia del Tar Lazio.
2.2 L’ordinanza di rimessione esprime condivisione per la tesi sostanzialistica, valorizzando il dato testuale dell’art. 76, comma 11, del D.P.R. n. 207/2010, alla luce del quale, se il cessionario non acquista automaticamente la qualificazione, simmetricamente deve escludersi che il cedente possa automaticamente perderla. Aggiunge che le fattispecie di cessione contemplate dalla disposizione in questione sono solo quelle che implicano il trasferimento di tutte quelle risorse aziendali (considerate dall’art. 79 del DPR n. 207/2010 requisiti d’ordine speciale), le quali, proprio perché suscettibili di dar vita ad un nuovo soggetto e di sostanziarne la sua qualificazione, presuppongono che il cedente se ne sia definitivamente spogliato. Non vi rientrano, invece, le diverse fattispecie di cessione di parti del compendio aziendale, le quali, ancorché qualificate come trasferimento di “rami aziendali”, si riferiscono, in concreto, a porzioni prive di autonomia funzionale e risultano pertanto inidonee a consentire al cessionario di ottenere la qualificazione.
Quanto alla rilevanza, ai fini della conservazione della qualificazione SOA, dell’attestazione successiva con cui l’organismo SOA accerti che, anche in seguito alla cessione di una parte del compendio aziendale, l’impresa cedente mantenga tutti i prescritti requisiti, la sezione remittente evidenza il paradosso che si realizzerebbe da un lato consentendo «all’impresa che abbia richiesto nei prescritti termini la verifica triennale del proprio attestato SOA di partecipare alle gare indette dopo il triennio, anche se la verifica sia compiuta successivamente, fermo restando che l’efficacia dell’aggiudicazione è subordinata all’esito positivo della verifica stessa» (Cons. Stato, Ad. plen, 18 luglio 2012, n. 27), dall’altro vietando la partecipazione alle gare per il sol fatto di avere stipulato un negozio avente il nomen iuris di cessione del ramo d’azienda, persino quando la verifica triennale del proprio attestato SOA concluda, poi, per l’irrilevanza dell’atto ai fini della qualificazione.
3. L’Adunanza Plenaria condivide la tesi sostanzialistica, ancorché per argomenti in parte diversi da quelli sinora richiamati. Si procederà dunque ad analizzare la fattispecie sulla base dei tre metodi comunemente impiegati nell’ermeneutica giuridica:
– letterale (sub 3.1);
– logico-sistematico (sub 3.2);
– teleologico (sub 3.3).
3.1 Punto di partenza dell’indagine non può che essere la disposizione interessata, che conviene esaminare con riferimento anche alle disposizioni immediatamente precedenti. Stabilisce l’art. 76 D.P.R. n. 207/2010, commi 9-11:
“9. In caso di fusione o di altra operazione che comporti il trasferimento di azienda o di un suo ramo, il nuovo soggetto può avvalersi per la qualificazione dei requisiti posseduti dalle imprese che ad esso hanno dato origine. Nel caso di affitto di azienda l’affittuario può avvalersi dei requisiti posseduti dall’impresa locatrice se il contratto di affitto abbia durata non inferiore a tre anni.
10. Nel caso di cessione del complesso aziendale o del suo ramo, il soggetto richiedente l’attestazione presenta alla SOA perizia giurata redatta da un soggetto nominato dal tribunale competente per territorio.
11. Ai fini dell’attestazione di un nuovo soggetto, nell’ipotesi in cui lo stesso utilizzi l’istituto della cessione del complesso aziendale o di un suo ramo, le SOA accertano quali requisiti di cui all’articolo 79 sono trasferiti al cessionario con l’atto di cessione. Nel caso in cui l’impresa cedente ricorra alla cessione del complesso aziendale o di un suo ramo, la stessa può richiedere alla SOA una nuova attestazione, riferita ai requisiti oggetto di trasferimento, esclusivamente sulla base dei requisiti acquisiti successivamente alla cessione del complesso aziendale o del suo ramo”.
Il comma 9 disciplina le operazioni che comportino il trasferimento dell’azienda o di un suo ramo, fissando la regola secondo cui il nuovo soggetto può utilizzare i requisiti di qualificazione dei soggetti da cui ha preso vita (“…imprese che ad esso hanno dato origine”). In tal caso il passaggio dei requisiti in capo all’acquirente è un corollario, oltre che del trasferimento d’azienda, della successione soggettiva. Invece, nell’ipotesi di affitto d’azienda (almeno) triennale, la ratio di tale effetto è nella continuità della gestione aziendale.
Già da qui si comprende come la portata dell’effetto traslativo dei beni aziendali non deve essere enfatizzata, giacché questo non è condizione né necessaria (affitto d’azienda), né sufficiente (fusione societaria o altra operazione di successione tra enti), della trasmissione dei requisiti di qualificazione.
Il comma 10 disciplina la sola ipotesi di cessione dell’intera azienda, o di un suo ramo, “pura” (non derivante cioè da modifiche della compagine societaria), ponendo a capo del soggetto che richiede l’attestazione a seguito del trasferimento (quindi, chiaramente, il cessionario) un onere probatorio qualificato.
Il comma 11, al primo periodo, disciplina il rilascio dell’attestazione al nuovo soggetto che intenda avvalersi dei requisiti di qualificazione in caso di cessione dell’azienda o di un suo ramo, stabilendo che compete alla SOA accertare quali requisiti sono trasferiti al cessionario con l’atto di cessione, ciò significando che non vi è alcun automatismo in proposito. Se l’automatismo è escluso dalla parte del cessionario, non può non esserlo da quella del cedente, poiché lo schema negoziale fondato sul principio del consenso traslativo postula la reciprocità degli effetti, per cui se chi acquista non riceve, chi cede non dà.
La portata soggettiva degli effetti traslativi è regolata da un sillogismo: premessa minore è il contratto traslativo, premessa maggiore è la biunivocità dell’effetto traslativo; conclusione necessaria è il prodursi contemporaneo dell’effetto di acquisto e di quello di perdita. Nei casi in cui un contratto traslativo non produce ipso iure l’acquisto del diritto in capo all’avente causa (perché, evidentemente, occorre un elemento aggiuntivo), non può produrre ipso iure la sua perdita in capo al dante causa. È logicamente impossibile dissociare i due effetti, e quando questo avviene è perché, in realtà, l’effetto traslativo non opera secondo la configurazione tipica; nella fattispecie in esame, infatti, l’efficacia traslativa tipica riguarda l’azienda, non le qualificazioni, poiché non necessariamente le parti hanno inteso disporre contestualmente al trasferimento aziendale il trasferimento dei requisiti di qualificazione ed in ogni caso, appunto, l’effetto traslativo dei requisiti è condizionario ad ulteriori elementi estranei alla volontà delle parti.
Il comma 11, al secondo periodo, disciplina la stessa ipotesi dal lato inverso, prevedendo che il cedente possa domandare una nuova attestazione esclusivamente sulla base dei requisiti acquisiti successivamente alla cessione. La tesi formalistica gioca molto su tale disposizione, ritenendo che essa dimostri come la cessione aziendale comporti la perdita della qualificazione. In verità si omette di considerare che la richiesta di nuova attestazione si riferisce ai “requisiti oggetto di trasferimento”, quindi presuppone – e non già implica – che tali requisiti siano stati trasferiti. Effetto che non si produce automaticamente, altrimenti non sarebbe stato precisato, men che meno con la formula “oggetto di”, la quale sottintende che l’effetto è disposto dal negozio e non dalla legge. In definitiva, la disposizione non stabilisce (neppure implicitamente) la perdita delle qualificazioni come effetto della cessione aziendale, ma prevede l’ipotesi in cui tale perdita si sia verificata.
Trattandosi dell’argomento principale della tesi formalistica, il Collegio ritiene di utilizzare una dimostrazione che consente di superare ogni incertezza, legata più che alla formulazione testuale (invero chiara), alla incompletezza della disposizione: l’assunto secondo cui la disposizione sottintende l’automatismo cade in una fallacia dell’argomentazione, nota come affermazione del conseguente.
Un esempio di codesta fallacia è la proposizione: “Se sono a Venezia, allora sono in Veneto. Sono in Veneto, perciò sono a Venezia”. Si critica questa fallacia mostrando come l’implicazione permette la conclusione solo se è una doppia implicazione, cioè se p e q si equivalgono, laddove “sono in Veneto” non necessariamente equivale a “sono a Venezia” ; (esempio di equivalenza: “Se sono a Roma (p), allora sono nella capitale d’Italia(q). Sono nella capitale d’Italia (q), perciò sono a Roma (p))”. Solo così affermando p si può derivare q. In simboli [(p <-> q) ^q] -> p.
Ebbene, nel caso in esame la tesi formalistica legge la proposizione come se dicesse: “Se vi è una cessione di ramo d’azienda e sono trasferiti i requisiti di qualificazione, allora l’impresa cedente può chiedere una nuova attestazione. Se l’impresa cedente può chiedere una nuova attestazione, allora la cessione di ramo d’azienda determina la perdita dei requisiti di qualificazione”: appunto l’affermazione del conseguente.
La facoltà prevista dall’art. 76, comma 11, secondo periodo per l’impresa cedente di chiedere una nuova attestazione SOA per i requisiti oggetto di trasferimento non può essere trasformata nella previsione della automatica decadenza all’atto della cessione, tanto più che essa non sarebbe sufficiente ad evitare il venir meno della qualificazione durante la gara, atteso che la richiesta di nuova attestazione può avvenire “esclusivamente sulla base dei requisiti acquisiti successivamente alla cessione del complesso aziendale o del suo ramo”.
Ne discende che non automaticamente in caso di trasferimento del ramo d’azienda sono trasferiti anche i requisiti di cui all’art. 79, comma 1 del DPR n. 207/2010. In particolare, è ben possibile che la cessione di parti dell’azienda, ancorché qualificate come ramo aziendale, si riferisca a porzioni prive di autonomia funzionale nel contesto dell’impresa e comunque non significative, quindi non sia tale da generare la perdita in capo al cedente (e il correlato acquisto in capo al cessionario) dei requisiti di qualificazione.
Se non sono trasferiti i requisiti di qualificazione, non possono esserlo le qualificazioni che ad essi si riferiscono.
3.2 Il dato testuale è confermato da quello logico-sistematico.
Stabilisce l’art. 1376 c.c. (genus dei contratti traslativi): “Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato”.
La tesi formalistica riposa su un enunciato che, sebbene non esplicitato, costituisce il fondamento dell’intero ragionamento volto a ravvisare nella stipulazione del contratto di cessione la pietra tombale sulla qualificazione per il cedente: il consenso al trasferimento del ramo d’azienda implica il trasferimento – e dunque la perdita – della qualificazione.
È lo stesso appellante che richiama i passaggi decisivi in proposito delle citate pronunce: «Vero è che possono esistere situazioni di fatto in cui, ceduto un ramo d’azienda, la cedente mantenga comunque requisiti sostanziali tali da sorreggere ancora la qualificazione inerente al compendio ceduto, indipendentemente da ulteriori acquisizioni. E in questo senso può essere corretto il dubbio se, occorrendo, non sia possibile dare dell’art. 76 un’interpretazione non strettamente letterale, tale da consentire la nuova attestazione anche allo stato dei requisiti, cioè a prescindere da acquisizioni successive alla cessione.Quella che è invece insostenibile è l’interpretazione inversa, e cioè che si possano dare cessioni di rami d’azienda senza perdita di diritto dell’attestazione relativa. E ciò perché un’interpretazione di questo segno sarebbe in contrasto con l’impianto di fondo della normativa vigente alla strenua del quale la qualificazione non è autocertificata dalla parte interessata, ma “viene rilasciata al termine di un procedimento istruttorio diretto ad accertare il possesso dei requisiti previsti dalla legge in capo al solo soggetto giuridico che l’ha richiesta”.».
In definitiva, ancorché si ammette che l’impresa cedente possa mantenere i requisiti sostanziali, si nega che possa conservare la correlata qualificazione, la quale sarebbe persa ipso iure all’atto del trasferimento aziendale.
L’assunto è doppiamente infondato.
In primo luogo perché viola il principio logico di identità.
Infatti, i requisiti di qualificazione contemplati dall’art. 79, comma 1 del DPR n. 207/2010 dipendono dalle risorse aziendali, ma non coincidonocon esse. Ciò per il semplice motivo che un conto è un bene patrimoniale (qual è, in definitiva, l’azienda: Cass. sez. un., n. 5087/14), altro sono i requisiti di qualificazione. Quand’anche si volesse ritenere che le categorie del diritto commerciale siano recepite passivamente dal diritto amministrativo che le richiami, resta che nella fattispecie in esame non vi è ad esse alcun richiamo, atteso che la citata disposizione del regolamento sui contratti pubblici individua come requisiti speciali di qualificazione i seguenti:
a) adeguata capacità economica e finanziaria;
b) adeguata idoneità tecnica e organizzativa;
c) adeguata dotazione di attrezzature tecniche;
d) adeguato organico medio annuo.
Pur trattandosi di elementi afferenti all’organizzazione produttiva dell’impresa (capitale e lavoro), essi sono dotati di autonomia concettuale, che i commi successivi dell’art. 79 articolano con riferimento a una pluralità di indici per ciascuna voce.
Ne discende che il consenso traslativo avente ad oggetto un ramo d’azienda non può automaticamente estendersi alle qualificazioni, né vi è alcuna norma che tanto disponga.
Ciò è coerente con la previsione secondo cui le SOA accertano quali requisiti di cui all’articolo 79 sono trasferiti al cessionario con l’atto di cessione. Poiché il contratto è “l’accordo tra due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale”, sicché il rapporto giuridico costituito non può che comprendere tutte le posizioni che sono oggetto del negozio (e ciò vale a maggior ragione per i negozi traslativi, in cui opera un meccanismo derivativo-costitutivo), se il cessionario può non acquistare taluni requisiti, il cedente può non perderli.
In secondo luogo la tesi formalistica postula che la qualificazione del negozio di cessione debba farsi sulla base della causa in astratto. Infatti, solo considerando esclusivamente la funzione socio-economica del modello negoziale adottato può pervenirsi all’affermazione che il trasferimento d’azienda implichi il trasferimento – e dunque la perdita in capo al cedente – dei requisiti di qualificazione, ancorché, in concreto, il negozio non persegua siffatto scopo.
La teoria della causa in astratto, già da tempo abbandonata dalla dottrina maggioritaria, è stata superata anche in giurisprudenza, in favore della teoria della causa in concreto, quale sintesi degli interessi reali delle parti.
Data la notorietà del tema, il Collegio non ritiene di trattenersi in argomento.
Merita, invece, di essere precisato come, in verità, la dicotomia causa astratta/concreta, riducendo la nozione di causa, rispettivamente, al tipo normativo o allo specifico contratto, incappa in una doppia fallacia di argomentazione:
– definizione troppo stretta: la definizione esclude elementi che dovrebbero essere inclusi. Per combattere la fallacia di definizione troppo stretta – che è una fallacia deduttiva – occorre confrontare il termine definito con l’ambito di definizione, mostrando che esso dovrebbe essere ampliato;
– causa complessa: l’effetto è causato da un numero di eventi maggiore di quelli presentati nell’argomento. Per evidenziare la fallacia di causa complessa – che è una fallacia causale – occorre individuare tutte le cause che, complessivamente, contribuiscono all’effetto.
Poiché il rapporto contrattuale si produce secondo lo schema fatto-norma-effetto, dove il fatto è dato dal singolo contratto e la norma dalla disposizione di legge che lo contempla, la causa, quale elemento del contratto, non può che riferirsi all’uno come all’altro.
Il contratto sarà tipico, allorquando la causa concreta (ossia la causa del singolo contratto) sarà riconducibile a quella astratta (ossia la causa del tipo contrattuale), operando il procedimento logico di sussunzione del fatto nella norma. Altrimenti sarà atipico. Ma, anche in tal ultima ipotesi, in base al metodo tipologico, costantemente seguito dalla Corte di cassazione, esisterà pur sempre una causa tipica (o una pluralità di cause tipiche) che fungeranno da paradigma nella definizione del contratto atipico.
In definitiva, entrambe le nozioni di causa hanno ragion d’essere, poiché esse, a ben guardare, si riferiscono ad entità diverse: il tipo legale ovvero il contratto storicamente stipulato.
Volendo pervenire a una nozione unitaria deve guardarsi all’art. 1321 c.c., in cui la causa è nella particella “per” (“il contratto è l’accordo per costituire … un rapporto giuridico patrimoniale”), essendo ciò che giustifica la produzione degli effetti giuridici per atto di autonomia privata, ossia, in sostanza, la legge di copertura del contratto e, più precisamente, del meccanismo di causalità giuridica che lega l’accordo al rapporto cui dà vita.
Ciò premesso, si intuisce come tale legge appartenga alla realtà sociale ed economica, e il legislatore si limiti a codificarla nell’ordine giuridico. Ne discende che l’autorizzazione alla produzione di effetti giuridici e il tipo di effetti prodotti dipendono dalla valutazione degli scopi concretamente (cioè nella realtà) perseguiti dalle parti, ancorché ancorata in larga misura a parametri preventivamente definiti dall’ordinamento.
Allora, è fuori luogo sostenere che la cessione dei beni aziendali comporti di per sé il trasferimento delle qualificazioni, occorrendo considerare quale sia l’interesse pratico sotteso all’operazione e il suo effettivo contenuto e se l’eventuale interesse pratico possa realizzarsi senza il concorso di elementi esterni al contratto, come nel caso gli adempimenti ulteriori di competenza SOA.
3.3 Milita nel senso indicato anche l’analisi del profilo funzionale dell’istituto.
Il principio secondo cui le qualificazioni richieste dal bando debbono essere possedute dai concorrenti non solo al momento della scadenza del termine per la presentazione delle offerte, ma anche in ogni successiva fase del procedimento di evidenza pubblica e per tutta la durata dell’appalto, senza soluzione di continuità (Cons. Stato, Ad. plen., 20 luglio 2015, n. 8) costituisce al tempo stesso fondamento e limite degli oneri posti all’impresa partecipante a una gara di appalto in materia di documentazione del perdurante possesso dei requisiti di qualificazione.
Ha osservato la Plenaria nel citato precedente che «Invero, per esigenze di trasparenza e di certezza del diritto, che non collidono col pur rilevante principio del favor partecipationis, la verifica del possesso, da parte del soggetto concorrente (ancor prima che aggiudicatario), dei requisiti di partecipazione alla gara deve ritenersi immanente all’intero procedimento di evidenza pubblica, a prescindere dalla indicazione, da parte del legislatore, di specifiche fasi espressamente dedicate alla verifica stessa, quali quelle di cui all’art. 11, comma 8 ed all’art. 48 del D. Lgs. n. 163/2006. Proprio perché la verifica può avvenire in tutti i momenti della procedura (a tutela dell’interesse costante dell’Amministrazione ad interloquire con operatori in via permanente affidabili, capaci e qualificati), allora in qualsiasi momento della stessa deve ritenersi richiesto il costante possesso dei detti requisiti di ammissione; tanto, vale la pena di sottolineare, non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e dunque della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e tecnico-economico-professionale necessari per contrattare con la P.A. ».
Se la normativa intende garantire l’effettivo possesso dei requisiti di qualificazione, non può contraddittoriamente fissare una presunzione di perdita dei requisiti in virtù della cessione di un ramo d’azienda.
La perdita automatica delle qualificazioni disegnerebbe, infatti, una presunzione assoluta, che, non soltanto non è esplicitata dalla legge, ma si porrebbe in conflitto con la giurisprudenza costituzionale in materia, la quale in numerose circostanze ha affermato il principio generale secondo cui «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit. In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia agevole formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (Corte costituzionale, sentenze n. 139 del 1982, n. 333 del 1991, n. 41 del 1999, n. 225 del 2008, n. 139 e 265 del 2010, n. 231 e 164 del 2011, n. 172 del 2012, etc.).
In questa giurisprudenza spicca – e sono significative proprio al fine di superare il conV.mento che la tesi dell’automatismo sia giustificata dalla tutela dell’interesse pubblico – il gruppo di pronunce che hanno progressivamente cancellato persino le presunzioni di adeguatezza della custodia cautelare in carcere aggiunte dal legislatore a quella originaria, prevista in relazione al reato di cui all’art. 416-bis del codice penale:
È stata così dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 275, comma 3, secondo e terzo periodo, c.p.p., nella parte in cui prevede che sia obbligatoriamente applicata la custodia cautelare in carcere quando sussistono esigenze cautelari e gravi indizi di colpevolezza in ordine:
– ai delitti di cui agli articoli 600-bis, comma 1, 609-bis e 609-quater del codice penale;
– al delitto di cui all’articolo 575 del codice penale;
– al delitto di cui all’articolo all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309;
– al delitto di cui all’articolo 416 c.p., realizzato allo scopo di commettere i delitti previsti dagli articoli 473 e 474 del codice penale;
– ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall’articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo;
– al delitto di cui all’articolo 630 del codice penale;
– al delitto di cui all’articolo 609-octies del codice penale;
– al delitto di cui agli artt. 110 e 416-bis del codice penale.
In tutte le pronunce la Corte ha osservato che la presunzione di adeguatezza ha ragion d’essere solo in relazione al delitto di associazione di tipo mafioso, che presenta quelle caratteristiche fenomeniche (accreditate su base generale da leggi socio-criminali o massime d’esperienza) tali da far ritenere la misura carceraria unico strumento idoneo a recidere i rapporti dell’indiziato con l’ambiente criminale di appartenenza e a neutralizzarne la pericolosità.
Ancor più evidente, muovendo dal campo del diritto penale alla fattispecie in esame, è che dunque le presunzioni assolute debbano avere un fondamento empirico, il che esclude che esse possano legarsi esclusivamente a regole astratte quale l’art. 1376 c.c.: se si prescinde dall’analisi del fatto concreto viene meno la connessione tra il fatto tipico (la cessione del ramo d’azienda) e l’effetto giuridico (la perdita delle qualificazioni), perché manca o è insufficiente la regola che a tale connessione provvede, ossia la regola di inferenza. Tale regola (legge scientifica, legge statistica, massima di esperienza) è quella che attiva l’operatore logico (o nesso di implicazione) e giustifica razionalmente il passaggio dalla premessa minore alla conclusione.
Se il divieto di presunzioni assolute è stato affermato in settori dove le politiche di sicurezza trovano massima giustificazione, sarebbe incomprensibile che non operasse in materia di appalti pubblici. L’elevato tasso di infiltrazione criminale e di corruzione che caratterizza questo settore non può condurre a semplificazioni concettuali, che finirebbero per danneggiare la libertà di impresa e la stessa concorrenza nel mercato, senza neppure giovare al contrasto della delinquenza economica.
L’analisi del dato funzionale non può prescindere da un cenno ai profili di diritto UE, atteso che la tesi formalistica o della discontinuità si pone in tensione con il principio di proporzionalità, con il diritto della concorrenza e con le libertà economiche garantite dal Trattato sul funzionamento UE. La regola secondo cui ogni trasferimento aziendale, ancorché minimo, genera di per sé la perdita delle qualificazioni, con effetti anche sulle gare in corso, per importi di gran lunga superiori al valore dei beni trasferiti, sarebbe:
– una misura eccessiva, anche alla luce della presunzione di idoneità di cui all’art. 52, commi 3 e 4 della direttiva 2004/18/CE;
– tale da alterare lo svolgimento delle competizioni, implicando l’esclusione dell’impresa cedente dalla gara, ancorché i requisiti di qualificazione non siano stati effettivamente persi;
– una restrizione indiretta alla libertà di stabilimento, alla libertà di circolazione dei capitali, alla libera prestazione di servizi.
Gli effetti distorsivi della concorrenza si avvertirebbero in particolare modo per i grandi gruppi societari (nazionali e non), i quali più frequentemente ricorrono a operazioni aziendali di minima rilevanza rispetto al fatturato globale (come nel caso in esame), ed ai quali deve essere garantita, in ciascuno Stato membro, la piena possibilità di operare sul mercato con trasformazioni ed operazioni societarie cui non si riconducano per effetto presuntivo conseguenze pregiudizievoli o disincentivanti.
3.4 Conclusivamente al primo quesito deferito può rispondersi che: «l’art. 76, comma 11, del D.P.R. n. 207/2010 deve essere interpretato nel senso che la cessione del ramo d’azienda non comporta automaticamente la perdita della qualificazione, occorrendo procedere a una valutazione in concreto dell’atto di cessione, da condursi sulla base degli scopi perseguiti dalle parti e dell’oggetto del trasferimento».
4. La soluzione nei termini indicati del primo quesito rende necessaria la riperimetrazione del secondo: se, infatti, nessun automatismo decadenziale è previsto nel caso di cessione del ramo d’azienda, il problema di stabilire l’efficacia (ex nunco ex tunc) della positiva verifica posteriore operata dalla SOA assume diverso significato.
4.1 La verifica operata dall’organismo attestatore ha un’efficacia probatoria e non già sostanziale, atteso che delle due l’una:
– se la cessione non ha comportato il trasferimento al cessionario e comunque la perdita dei requisiti di qualificazione in capo al cedente, la verifica favorevole ex post avrà valore meramente ricognitivo;
– se la cessione ha comportato il trasferimento dei requisiti, l’impresa cedente dovrà chiedere una nuova attestazione e un’eventuale verifica favorevole ex post sarebbe inutile, non potendo sanare l’oggettiva assenza dei requisiti.
Peraltro gli atti di accertamento hanno intrinseca valenza retroattiva, perché dichiarano una realtà giuridica preesistente. Ne discende che postulare l’efficacia ex nunc della verifica positiva da parte dell’organismo SOA sarebbe in contrasto con la sua natura.
Essa, inoltre, darebbe luogo al paradosso di ritenere che l’attestazione, pur valida, non sia utile a conservare senza soluzione di continuità la qualificazione, ammettendosi dunque una sorta di effetto intermittente, del tutto anomalo.
Ciò premesso, ancorché non enunciato, sotteso al quesito posto è il tema delle conseguenze della cessione di un ramo d’azienda sull’attestazione dell’impresa cedente, in particolare nell’ipotesi in cui detta cessione non abbia determinato la perdita dei requisiti di qualificazione.
Tale situazione, chiaramente, deve essere accertata dal soggetto competente a verificare la sussistenza dei requisiti.
Tale accertamento potrà avvenire tanto in sede di verifica periodica, quanto in sede di verifica straordinaria. La verifica straordinaria potrà essere attivata dalla SOA su segnalazione dell’ANAC ovvero, nel caso cui la cessione avvenga in corso di gara, su istanza della stazione appaltante (cui la cessione dev’essere tempestivamente comunicata) o delle altre imprese partecipanti alla gara.
La procedimentalizzazione degli effetti della cessione d’azienda neutralizza l’argomento dell’appellante secondo cui l’impresa cedente non può autonomamente attestare il possesso dei requisiti di qualificazione: in realtà l’attestazione è già esistente e si tratta solo di accertare se essa sia conservata o meno seguito della cessione, il che avviene nei modi sopraindicati.
Qualora si accerti che i requisiti siano stati persi, la SOA è tenuta a dichiarare la decadenza dell’attestazione e troverà applicazione l’art. 76, comma 11, secondo periodo D.P.R. n. 207/2010; altrimenti l’impresa cedente potrà continuare ad avvalersi dell’attestazione originaria.
A conferma dell’impostazione adottata, vi è l’art. 40, comma 9 ter, del d.lgs. n. 163/2006: “Le SOA hanno l’obbligo di comunicare all’Autorità l’avvio del procedimento di accertamento del possesso dei requisiti nei confronti delle imprese nonché il relativo esito. Le SOA hanno l’obbligo di dichiarare la decadenza dell’attestazione di qualificazione qualora accertino che la stessa sia stata rilasciata in carenza dei requisiti prescritti dal regolamento, ovvero che sia venuto meno il possesso dei predetti requisiti; in caso di inadempienza l’Autorità procede a dichiarare la decadenza dell’autorizzazione alla SOA all’esercizio dell’attività di attestazione”.
Il ruolo di vigilanza dell’ANAC nei casi in cui la SOA confermi il possesso della qualificazione concorre a confutare una delle ragioni dell’orientamento formalistico, ossia la pretesa funzione della regola dell’automatismo di contrastare meccanismi di elusione della normativa anticorruzione (e, più in generale, della legislazione in materia di appalti pubblici) fondati sulla cessione dei beni aziendali. Si ritiene, infatti, che la perdita ipso iure della qualificazione disincentivi trasferimenti fraudolenti o cessioni di comodo, e tale ratio sia coerente con l’opposta necessità di una verifica in concreto sui requisiti trasferiti ai fini dell’acquisto delle qualificazioni da parte del cessionario.
Premesso che anche questo ragionamento incappa in una fallacia di argomentazione (definizione circolare: si pretende di definire un termine utilizzando una proposizione che lo contiene), il potere di intervento dell’Autorità neutralizza il rischio che l’impresa cedente continui a operare sulla base di un’illegittima (o mancata) conferma dell’attestazione da parte della SOA. Ed in effetti, nella fattispecie, a sgombrare il campo da ogni ipotetico dubbio su finalità elusive della cessione, non solo la SOA ha certificato, ma l’ANAC ha validato il possesso continuativo in capo a S. dei requisiti.
4.2 Al secondo quesito deferito può dunque rispondersi che:«In ipotesi di cessione di un ramo d’azienda,l’accertamento positivo effettuato dalla SOA, su richiesta o in sede di verifica periodica, in ordine al mantenimento dei requisiti di qualificazione da parte dell’impresa cedente, comporta la conservazione dell’attestazione da parte della stessa senza soluzione di continuità».
5. Il Collegio, enunciati i principi di diritto di cui ai punti 3.4 e 4.2 che precedono, previa estromissione delle parti intervenute, restituisce il giudizio alla Sezione remittente ai sensi dell’art. 99, comma 4 del decreto legislativo 2 luglio 2010, n. 104.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), non definitivamente pronunciando sull’appello come in epigrafe proposto:
1) estromette dal giudizio E. S.p.a., M. s.c.p.a., G.I. s.r.l.;
2) enuncia i principi di cui ai punti 3.4 e 4.2 del “Diritto”;
3) restituisce per il resto il giudizio alla III Sezione.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 giugno 2017 con l’intervento dei magistrati:
Franco Frattini, Presidente
Maruotti, Presidente
Marco Lipari, Presidente
Antonino Anastasi, Presidente
Carlo Saltelli, Presidente
Roberto Giovagnoli, Consigliere
Francesco Bellomo, Consigliere, Estensore
Manfredo Atzeni, Consigliere
Contessa, Consigliere
Fabio Taormina, Consigliere
Bernhard Lageder, Consigliere
Silvestro Maria Russo, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere
IL PRESIDENTE | ||
Franco Frattini | ||
L’ESTENSORE | IL SEGRETARIO | |
Francesco Bellomo |
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