Un altro fronte di continua, per quanto vana, discussione è quello del rinnovo dei contratti, che dura ormai da oltre un decennio.
Tutto risale al 1993, quando la legge 537 disciplinò il rinnovo all’articolo 6. Una norma talmente sofferta che già l’anno dopo venne modificata dall’articolo 44, comma 1, della legge 724, 1994, il quale introdusse il seguente comma 2, prevedendo: “E’ vietato il rinnovo tacito dei contratti delle pubbliche amministrazioni per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli. Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le amministrazioni accertano la sussistenza di ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente la volontà di procedere alla rinnovazione”.
Vietato il rinnovo tacito, era consentito il rinnovo espresso. Con una norma, tuttavia, inconciliabile con le direttive europee sugli appalti, a mente delle quali non era previsto il rinnovo, ma la ripetizione dei servizi analoghi, secondo uno schema procedurale (ancora oggi vigente) diverso da quello proposto dalla normativa nazionale. La quale non poteva che essere recessiva rispetto a quella europea. Infatti, dopo quasi un decennio di conflitti interpretativi e giurisprudenziali volti ad evidenziare l’inconciliabilità del rinnovo espresso di diritto interno con le regole della ripetizione delle prestazioni europee, il legislatore italiano fu costretto ad intervenire sulla norma, attraverso la novella apportata dall’articolo 23, comma 1, della legge 62/2005 (non a caso legge in tema di “Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee”). La novellazione eliminò dal testo dell’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993 l’ultimo periodo, quello che sopra abbiamo enfatizzato in grassetto.
Un’abolizione chiarissima ed indiscutibile dell’istituto del rinnovo espresso, dovuta alla necessità di adeguare l’ordinamento interno a quello comunitario, che conosceva e conosce solo ed esclusivamente l’istituto analogo, ma diverso, della ripetizione dei servizi.
Come è noto, un anno dopo il d.lgs 163/2006 abolì definitivamente l’intero articolo 6, comma 2.
L’evoluzione normativa è chiarissima. Si è passati da una disciplina di diritto interno posta a regolare e consentire espressamente il rinnovo, ad una disciplina necessitata ad adeguarsi a quella comunitaria, che non ammette il rinnovo espresso, ma si limita a regolare la ripetizione delle prestazioni. Il legislatore italiano, costretto alla luce della disciplina europea, manifestò in modo inconfutabile la volontà di dis-volere l’istituto del rinnovo, alla luce della valutazione di diritto europeo che si tratterebbe di un affidamento diretto, una procedura negoziata, i cui presupposti non sono conformi alle direttive.
Nonostante il quadro chiarissimo, qualcuno ha continuato a ritenere che un istituto soppresso esplicitamente dal legislatore come il rinnovo, potesse tuttavia risorgere dalle proprie ceneri, in applicazione dell’autonomia di diritto privato delle stazioni appaltanti. L’idea, dunque, è che se il bando preveda il rinnovo vero e proprio e non la ripetizione delle prestazioni di stampo europeo, in ogni caso sarebbe legittimo.
Si tratta di un chiaro aggiramento, anzi una vera e propria violazione delle leggi, che, tuttavia, alcune sparute sentenze amministrative hanno ritenuto possibile, nonostante il d.lgs 163/2006 non abbia mai ripetuto il contenuto dell’abolito articolo 6, comma 2, della legge 537/1993.
Ma, in Italia è difficilissimo far entrare realmente e fino in fondo i principi comunitari nella prassi, anche se magari sul piano formale le leggi sono conformi pienamente alle direttive europee.
Quindi, oltre all’idea oggettivamente infondata dell’ammissibilità del rinnovo espresso disposto coi bandi, purtroppo sostenuta da parte della giurisprudenza, la “prassi” ha cercato di approfittare dell’occasione della necessaria revisione del codice dei contratti alla luce della direttiva 24/2014/Ue, per indurre il legislatore a reintrodurlo. Come si ricorda, inizialmente la bozza di codice conteneva la riproposizione di una forma di rinnovo di diritto interno nell’articolo 106, comma 12. Però, anche per merito del parere del Consiglio di stato immediatamente accortosi della cosa, nel testo finale del d.lgs 50/2016 non v’è alcuna “nostalgica” disciplina del rinnovo espresso.
Ma, ribadiamo, in Italia è difficile che la prassi e la “nostalgia” per le scorciatoie procedurali cedano il passo.
Dunque, succede che l’articolo 216 del codice abbia introdotto un insieme di norme di diritto transitorio così mal espresse e complicate che nessuno ci abbia capito niente.
Sicchè, l’Anac si è sentita nel dovere di intervenire col “Comunicato del Presidente” 11 maggio 2016, avente ad oggetto “Indicazioni operative alle stazioni appaltanti e agli operatori economici a seguito dell’entrata in vigore del Codice dei Contratti Pubblici, d.lgs. n. 50 del 18.4.2016”. Qui un inciso: avevamo creduto che la soft law fosse tipizzabile quanto meno in linee guida, bandi-tipo, capitolati-tipo, contratti-tipo; mal poiché l’articolo 213, comma 2, del codice consente all’Autorità di esprimersi anche con “altri strumenti di regolamentazione flessibile, comunque denominati”, evidentemente anche il “comunicato” del presidente entra di diritto a far parte della soft law, in attesa anche dei tweet, dei gesti, dei fischi e dei graffiti sui muri.
Tornando alla “fonte” del comunicato, essa sciaguratamente si dilunga sulla fattispecie del “rinnovo”, affermando che restino ancora disciplinati dal previgente ordinamento “il rinnovo del contratto o modifiche contrattuali derivanti da rinnovi già previsti nei bandi di gara”.
Un’affermazione, questa, due volte non condivisibile ed erronea, perché:
1) il d.lgs 163/2006 non regola per nulla il rinnovo; come si è detto sopra, parte della giurisprudenza ha ammesso il rinnovo previsto col bando nell’esercizio dell’autonomia di diritto privato. Ma, se il d.lgs non regola il rinnovo, non può esistere alcun diritto transitorio che lasci ancora in piedi una norma inesistente;
2) l’indicazione dell’Anac è del tutto priva di motivazione. Anche ammesso che il rinnovo fosse disciplinato dal d.lgs 163/2006 – il che non è – comunque non si capisce quale sia la ratio secondo la quale un contratto integralmente nuovo, quello rinnovato, e totalmente autonomo dal primo, al quale resta solo logicamente connesso dalla clausola di rinnovo, debba rispettare il regime normativo (inesistente) precedente e non quello vigente al momento della stipulazione del rinnovo.
Ma, al di là degli evidenti vizi logici e di legittimità del comunicato sul punto, esso ha già dato fiato alle trombe di chi ritiene, nonostante tutto, che sia ancora possibile in Italia un rinnovo di diritto interno, distinto da quello europeo, e pazienza che il tentativo di reintrodurre una disciplina espressa con la prima stesura dell’articolo 106, comma 12, del codice sia stato fermato con risolutezza da Palazzo Spada.
Dunque la poco meditata ed erronea affermazione dell’Anac sortisce un altro effetto esiziale: quello di fornire ulteriori argomentazioni, per quanto speciose, ai sostenitori del rinnovo di diritto interno. I quali non terranno sicuramente conto del fatto che, anche a voler considerare condivisibile e legittima la ricostruzione dell’Anac sulla questione, l’accenno al rinnovo non può che riferirsi ad una constatazione di fatto: alla data del 19 maggio erano in piedi certamente bandi che prevedevano il rinnovo e, dunque, l’indicazione dell’Anac è solo ed esclusivamente rivolta al passato e non può essere considerata fonte di disciplina del rinnovo per il futuro. Va bene la soft law, ma essa deve fermarsi alla specificazione delle regole, non può andare fino alla posizione delle norme: a questo compito, piaccia o non piaccia, può e deve attendere esclusivamente il Parlamento. Per altro, il Parlamento, anzi il legislatore delegato, ha anche provato a reintrodurre il rinnovo espresso, ma alla fine non lo ha fatto. Questa argomentazione da sola assorbe qualsiasi altra, per dimostrare che il rinnovo è da considerare definitivamente (e lo è da almeno 2 decenni) espunto dall’ordinamento.
Né vale appellarsi all’articolo 35, comma 4, del d.lgs 50/2016, ove ai fini del calcolo dell’importo dei contratti per determinare le soglie, si specifica che si “tiene conto dell’importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di eventuali opzioni o rinnovi del contratto esplicitamente stabiliti nei documenti di gara”. La norma, infatti, è praticamente identica a quanto prevedeva l’articolo 29, comma 1, del d.lgs 163/2006 (“Il calcolo del valore stimato degli appalti pubblici e delle concessioni di lavori o servizi pubblici è basato sull’importo totale pagabile al netto dell’IVA, valutato dalle stazioni appaltanti. Questo calcolo tiene conto dell’importo massimo stimato, ivi compresa qualsiasi forma di opzione o rinnovo del contratto”). Ma, nel previgente sistema, come ricordato sopra, nessuno ha mai pensato che detta norma fosse posta a fondamento di un rinnovo di diritto interno diverso dalla ripetizione delle prestazioni; tanto che quella parte di giurisprudenza e di dottrina ancora abbarbicata alla coperta di Linus del rinnovo ne fondava la legittimità non sulle previsioni del codice dei contratti (imprese impossibile alla luce di una interpretazione orientata a rispettare le direttive europee), ma all’autonomia di diritto privato, assunta – erroneamente – come fonte di deroga alla normativa sugli appalti che, invece, ha l’esatto scopo proprio di limitare l’autonomia privata delle stazioni appaltanti, allo scopo di garantire l’applicazione dei principi oggi ben espressi dall’articolo 30 del codice, tra i quali quelli di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, e pubblicità, del tutto inconciliabili con un rinnovo extra ordinem di matrice interna.
Il riferimento dell’articolo 35, comma 4, riguarda ovviamente l’ipotesi unica di riaffidamento di un contratto avente identico contenuto ad un precedente tra una stazione appaltante ed un operatore economico, prevista, nel nuovo codice, nell’articolo 63, comma 5: “La presente procedura [cioè quella negoziata, nda] può essere utilizzata per nuovi lavori o servizi consistenti nella ripetizione di lavori o servizi analoghi, già affidati all’operatore economico aggiudicatario dell’appalto iniziale dalle medesime amministrazioni aggiudicatrici, a condizione che tali lavori o servizi siano conformi al progetto a base di gara e che tale progetto sia stato oggetto di un primo appalto aggiudicato secondo una procedura di cui all’articolo 59, comma 1. Il progetto a base di gara indica l’entità di eventuali lavori o servizi complementari e le condizioni alle quali essi verranno aggiudicati. La possibilità di avvalersi della procedura prevista dal presente articolo è indicata sin dall’avvio del confronto competitivo nella prima operazione e l’importo totale previsto per la prosecuzione dei lavori o della prestazione dei servizi è computato per la determinazione del valore globale dell’appalto, ai fini dell’applicazione delle soglie di cui all’articolo 35, comma 1 Il ricorso a questa procedura è limitato al triennio successivo alla stipulazione del contratto dell’appalto iniziale”.
Nei fatti è un rinnovo, certo, ma vincolato a specifici presupposti e condizioni che rendono qualsiasi altro rinnovo disposto con modalità e regole differenti semplicemente illegittimo.
Luigi Oliveri
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