Il rito della cui legittimità costituzionale dubitava il T.a.r. Puglia, come è noto, era stato introdotto dall’art. 204, d.lgs. n. 50/2016, che, nel modificare l’art. 120, c.p.a., imponeva di effettuare l’impugnativa degli atti di ammissione ed esclusione dei concorrenti dalla gara di appalto entro trenta giorni dalla pubblicazione del provvedimento sul profilo del committente della stazione appaltante.
La ratio di tale previsione, valorizzata anche nella motivazione della sentenza della Corte, sarebbe ricollegata alla necessità di definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all’esame delle offerte e, quindi, all’aggiudicazione, ma le criticità, messe in luce sia dalla dottrina sia dalla giurisprudenza, erano molteplici.
Come è noto, il decreto legge “sblocca cantieri”, anche a seguito della legge di conversione, aveva abrogato il tanto discusso rito superaccelerato di cui all’art. 120, commi 2-bis e 6-bis, c.p.a., che prevedeva che l’impugnativa degli atti di ammissione ed esclusione dei concorrenti dalla gara di appalto dovesse essere effettuata entro trenta giorni dalla pubblicazione del relativo atto sul profilo della stazione appaltante. L’intervenuta abrogazione sembrava voler prendere atto dei numerosi problemi che l’applicazione di detto rito causava agli operatori economici nonché della pendenza di una questione di legittimità costituzionale.
La questione di legittimità costituzionale è stata ritenuta rilevante dalla Corte costituzionale. Infatti, ad avviso della Corte, l’intervenuta abrogazione non può incidere sulla rilevanza, dal momento che lo stesso art. 1, comma 23, del citato d.l. n. 32/2019, aveva previsto che «le disposizioni di cui al comma 22 si applicano ai processi iniziati dopo la data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto».
A maggior ragione rilevante appare la questione se si pensa a quella giurisprudenza, invero non richiamata dalla Corte, secondo cui il rito continuerebbe ad applicarsi, anche nel caso di giudizi instaurati successivamente all’entrata in vigore del decreto legge n. 32/2019, nel caso in cui il provvedimento di ammissione/esclusione fosse stato adottato prima dell’entrata in vigore del suddetto decreto (in questo senso l’ordinanza del T.a.r. Lazio, Roma, n. 7258 dell’8 novembre 2019, commentata su questo sito).
Ciò chiarito in punto di rilevanza, la sentenza della Corte costituzionale sembra porsi nella scia della sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, resa nella causa C-54/18 (commentata su questo sito), che aveva già ritenuto prioritaria la necessità di definire nel modo più rapido possibile, mediante la previsione di stretti termini di decadenza, i giudizi avverso i “provvedimenti preparatori” o le “decisioni intermedie” adottati nell’ambito del procedimento di aggiudicazione di un appalto. In effetti, la Corte costituzionale, oltre a richiamare ampi stralci della sentenza della Corte di Lussemburgo, richiama anche il parere n. 855/2016, reso dal Consiglio di Stato sullo schema di Codice dei contratti pubblici, in cui la ragione dell’introduzione del nuovo rito veniva individuata nell’esigenza di «definire la platea dei soggetti ammessi alla gara in un momento antecedente all’esame delle offerte».
Viene, altresì, richiamato il parere n. 782/2017 del Consiglio di Stato sullo schema di decreto “correttivo” in cui si era rilevato come con l’introduzione di suddetto rito il legislatore avesse inteso porre rimedio alla proliferazione incontrollata dei giudizi incentrati sui requisiti di ammissione alla gara, attraverso il fuoco incrociato dei ricorsi principali e incidentali escludenti.
La Corte costituzionale, inoltre, richiama l’attenzione sull’ampia discrezionalità di cui gode il legislatore nella conformazione degli istituti processuali, con il solo limite della manifesta irragionevolezza delle scelte compiute, che si ritiene insussistente nel caso di specie, stante la meritevolezza della ratio di definire anticipatamente la platea dei soggetti partecipanti alle gare.
Sulla scorta della medesima motivazione, in modo in verità piuttosto tranchant, viene escluso che il legislatore abbia voluto configurare una giurisdizione “di tipo oggettivo”, volta a dare autonoma rilevanza alla correttezza e trasparenza delle procedure di gara, avendo inteso invece dare rilievo all’interesse strumentale o procedimentale del concorrente alla corretta formazione della platea dei soggetti partecipanti alla gara.
Per quanto riguarda il costo di un eccessivo cumulo di contributi unificati, «il motivo non mantiene un’autonoma forza logica». Sul punto, tuttavia, la Corte sembra quasi aprire la porta a una futura declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme sui contributi unificati in materia di appalti: si legge, infatti, che «tale aspetto […] indubbiamente merita un’attenta riflessione […] il costo in tesi eccessivo dei contributi unificati non può essere motivo di illegittimità costituzionale delle norme istitutive del rito “super speciale” ma, eventualmente, di quelle che regolano l’imposizione o la misura del contributo medesimo, norme, quest’ultime, non oggetto dell’odierno scrutinio di costituzionalità».
La motivazione adottata dalla Corte costituzionale appare eccessivamente sbrigativa e sembra, per certi versi, adagiarsi su quanto già affermato dalla Corte di Giustizia. In effetti, sembrano essere stati sottovalutati, o quantomeno non adeguatamente considerati, i profili di illegittimità costituzionale messi in luce dal T.a.r. remittente, sulla base sempre dell’esigenza considerata prioritaria di definire anticipatamente la platea dei soggetti concorrenti.
Il T.a.r. remittente, peraltro, facendo seguito alla dottrina in materia, aveva opportunamente sottolineato che, negli appalti di maggiore rilevanza economica, sembra plausibile immaginare una proliferazione dei ricorsi nella fase di ammissione ed esclusione alla gara (in spregio alla ratio deflattiva), mentre, negli appalti di minore rilevanza economica, risulterebbero di fatto inattaccabili le ammissioni illegittime eventualmente disposte, essendo del tutto antieconomico per i concorrenti intraprendere iniziative processuali anticipate e “al buio” (anche in considerazione degli importi ingenti dei contributi unificati previsti in materia di appalti pubblici).
Proprio su questo punto, la Corte costituzionale dimostra non aver pienamente colto il senso di quanto pure era stato scritto dal giudice a quo, sia pure in modo piuttosto stringato, liquidando anche in questo caso la questione di legittimità costituzionale: si legge, infatti, che «il rimettente deduce la congiunta violazione degli artt. 24 e 111 Cost., perché il rito “super speciale”, in alternativa al già cennato effetto dissuasivo delle iniziative giurisdizionali, «potrebbe» avere «un effetto di proliferazione dei ricorsi» non compatibile con il principio di ragionevole durata del processo. La questione, non ulteriormente sviluppata, è inammissibile per contraddittorietà e perplessità, poiché il TAR Puglia stringatamente prospetta una violazione alternativa ed opposta di differenti parametri costituzionali: il rito “super speciale” potrebbe avere un effetto dissuasivo delle controversie o, al contrario, un effetto moltiplicativo delle stesse».
Ebbene, la motivazione della Corte posta in questi termini sembra non cogliere nel segno: il rito superspeciale, infatti, parrebbe proprio avere quella “doppia faccia” messa in luce dal T.a.r. remittente, producendosi un effetto sia dissuasivo, per quanto riguarda gli appalti di minor valore economico, sia moltiplicativo, per quanto riguarda gli appalti di maggiore rilevanza.
Per una volta, se la sentenza della Corte è stata forse poco coraggiosa, maggiore coraggio ha mostrato il legislatore che, venendo incontro alle istanze di operatori economici e professionisti, ha abrogato il tanto discusso rito.
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