La Corte di Giustizia con sentenza della V Sezione del 26 novembre 2019, n. C-63/18 ha affermato che: “La direttiva 2014/24/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 febbraio 2014, sugli appalti pubblici e che abroga la direttiva 2004/18/CE, come modificata dal Regolamento delegato (UE) 2015/2170 della Commissione, del 24 novembre 2015, deve essere interpretata nel senso che osta a una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, che limita al 30% la parte dell’appalto che l’offerente è autorizzato a subappaltare a terzi”.
Editoriale estratto dal periodico Appalt&Contratti numero 11/2019
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Si tratta di una pronuncia, prevedibile nelle conclusioni rassegnate dai giudici (e peraltro già annunciata da precedenti della stessa Corte con riguardo ad analoghe limitazioni previste in altri Stati membri, come la sentenza del 14 luglio 2016, Wrocław – Miasto na prawach powiatu C-406/14), che ripropone la distanza, soprattutto culturale, tra l’impostazione eurounitaria e quella nazionale sulle categorie di appalto, di impresa esecutrice di un contratto pubblico e sulle modalità per contrastare il fenomeno delle infiltrazioni criminose negli appalti pubblici.
Sulla medesima questione, come noto, è pendente la procedura di infrazione n. 2018/2273 avviata dalla Commissione UE, che, tra gli altri rilievi, ha contestato allo Stato italiano la previsione di limiti al subappalto previsti dall’art. 105, e rispetto alla quale il decreto sblocca cantieri ha tentato di rispondere, “nelle more di una complessiva riforma della disciplina dei contratti pubblici”, con la previsione di un regime transitorio fino al 31.12.2010, nel quale è stato operato l’innalzamento della soglia dal 30 al 40%, (oltre all’eliminazione dell’obbligo della terna dei subappaltatori, ma ripristinando anche il divieto per il subappaltatore di partecipare alla gara).
La questione pregiudiziale che ha condotto alla pronuncia in esame era stata sollevata dal TAR Lombardia (con ordinanza n. 148 del 19 gennaio 2019), nell’ambito di una controversia riguardante l’esclusione di un’impresa da una gara indetta da Autostrade per l’Italia per i lavori di ampliamento dell’A8, a causa del superamento del limite del 30% previsto in materia di subappalto dall’art. 105, comma 2 del codice.
Secondo i giudici di Lussemburgo “è interesse dell’Unione che l’apertura di un bando di gara alla concorrenza sia la più ampia possibile. Il ricorso al subappalto, che può favorire l’accesso delle piccole e medie imprese agli appalti pubblici, contribuisce al perseguimento di tale obiettivo”.
Ha inoltre osservato la Corte che, dalla volontà del legislatore dell’Unione di disciplinare all’art. 71 della direttiva 2014/24, in maniera più specifica, le situazioni in cui l’offerente fa ricorso al subappalto, non si può dedurre che gli stati membri dispongano ormai della facoltà di limitare tale ricorso a una parte dell’appalto fissata in maniera astratta in una determinata percentuale dello stesso, al pari del limite imposto dalla normativa di cui trattasi nel procedimento principale.
Lo Stato italiano aveva osservato come “la limitazione del ricorso al subappalto di cui trattasi nel procedimento principale è giustificata alla luce delle particolari circostanze presenti in Italia, dove il subappalto ha da sempre costituito uno degli strumenti di attuazione di intenti criminosi. Limitando la parte dell’appalto che può essere subappaltata, la normativa nazionale renderebbe il coinvolgimento nelle commesse pubbliche meno appetibile per le associazioni criminali, il che consentirebbe di prevenire il fenomeno dell’infiltrazione mafiosa nelle commesse pubbliche e di tutelare così l’ordine pubblico”. Rispetto a tale rilievo, la Corte ha tuttavia dichiarato che “il contrasto al fenomeno dell’infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti pubblici costituisce un obiettivo legittimo che può giustificare una restrizione alle regole fondamentali e ai principi generali del TFUE che si applicano nell’ambito delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici”.
Secondo la Corte, “anche supponendo che una restrizione quantitativa al ricorso al subappalto possa essere considerata idonea a contrastare siffatto fenomeno, una restrizione come quella di cui trattasi nel procedimento principale eccede quanto necessario al raggiungimento di tale obiettivo (…) tale divieto si applica indipendentemente dal settore economico interessato dall’appalto di cui trattasi, dalla natura dei lavori o dall’identità dei subappaltatori. Inoltre, un siffatto divieto generale non lascia alcuno spazio a una valutazione caso per caso da parte dell’ente aggiudicatore (…). Ne consegue che, nell’ambito di una normativa nazionale come quella di cui trattasi nel procedimento principale, per tutti gli appalti, una parte rilevante dei lavori, delle forniture o dei servizi interessati dev’essere realizzata dall’offerente stesso, sotto pena di vedersi automaticamente escluso dalla procedura di aggiudicazione dell’appalto, anche nel caso in cui l’ente aggiudicatore sia in grado di verificare le identità dei subappaltatori interessati e ove ritenga, in seguito a verifica, che siffatto divieto non sia necessario al fine di contrastare la criminalità organizzata nell’ambito dell’appalto in questione”.
Decisivo è il passaggio della sentenza nella quale si afferma che “il diritto italiano già prevede numerose attività interdittive espressamente finalizzate ad impedire l’accesso alle gare pubbliche alle imprese sospettate di condizionamento mafioso o comunque collegate a interessi riconducibili alle principali organizzazioni criminali operanti nel paese. Pertanto, una restrizione al ricorso del subappalto (…) non può essere ritenuta compatibile con la direttiva 2014/24. Tale conclusione non può essere rimessa in discussione dall’argomento dedotto dal governo italiano, secondo cui i controlli di verifica che l’amministrazione aggiudicatrice deve effettuare in forza del diritto nazionale sarebbero inefficaci. Invero, siffatta circostanza, che, come pare evincersi dalle osservazioni stesse di tale governo, risulta dalle modalità specifiche di tali controlli, nulla toglie al carattere restrittivo della misura nazionale di cui al procedimento principale”. Soggiunge infine la Corte che “il governo italiano non ha affatto dimostrato, nell’ambito della presente causa, che le diverse disposizioni previste all’art. 71 della direttiva 2014/24, con le quali gli Stati membri possono limitare il ricorso al subappalto, nonché i possibili motivi di esclusione dei subappaltanti ai sensi dell’articolo 57 di tale direttiva, e ai quali fa riferimento l’art. 71, paragrafo 6, lettera b), di quest’ultima, non possano essere attuate in modo tale da raggiungere l’obiettivo perseguito dalla normativa nazionale di cui al procedimento principale”.
Ora, dopo la sentenza della Corte di Giustizia si apre drammaticamente la questione, di non poco momento, sulla disapplicazione o meno del limite nazionale del 40% per contrasto con il diritto comunitario.
Sul piano meramente formale si potrebbe osservare come la sentenza della Corte si riferisca alla norma dell’art. 105, comma 2, del d.lgs. 50/2016 e alla quota del 30%, e non abbia invece censurato la diversa disposizione dell’art. 1, comma 18, della l. 55/2019 che prevede in via transitoria, fino al 31.12.2020, la quota del 40%. L’argomento formale – come pare di tutta evidenza – è però decisamente debole a fronte della solida impostazione sostanzialistica che caratterizza la sentenza e della modestissima differenza tra la quota del 30% e quella del 40%. Dunque, la questione della disapplicazione della norma nazionale si pone con tutta la sua drammaticità, sia sopra che sotto soglia, atteso che il contrasto coinvolge soprattutto i “principi” comunitari e non solo le puntuali disposizioni delle direttive.
La questione deve essere tempestivamente affrontata dal legislatore nella prima occasione utile, mentre l’ANAC potrebbe emanare almeno un primo documento (Comunicato del Presidente, ad esempio), col quale fornire le prime indicazioni alle amministrazioni aggiudicatrici. È possibile che in sede di adozione del Regolamento attuativo del Codice previsto dal decreto sblocca cantieri all’art. 216, comma 27-ocites, e in occasione della revisione del sistema di qualificazione degli esecutori di lavori pubblici, saranno previste disposizioni tese a recepire le indicazioni della Corte di Giustizia.
Un aspetto che desta comprensibile preoccupazione da parte delle stazioni appaltanti è dato anche dal profilo penalistico e dal possibile concorso del RUP o dirigente nel reato del subappalto non autorizzato (rectius “non autorizzabile” nella misura che supera il 40% dell’importo del contratto d’appalto) di cui all’art. 21 della l. 646/1982, recentemente novellato in senso più restrittivo dal d.l. 185/2018 convertito in l. 132/2018, a tenore del quale: “Chiunque, avendo in appalto opere riguardanti la pubblica amministrazione, concede anche di fatto, in subappalto o a cottimo, in tutto o in parte, le opere stesse, senza l’autorizzazione dell’autorità competente, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa non inferiore ad un terzo del valore dell’opera concessa in subappalto o a cottimo e non superiore ad un terzo del valore complessivo dell’opera ricevuta in appalto”.
Vi è peraltro da osservare che la novella operata dal d.l. 185/2018, nell’inasprire le sanzioni penali dall’arresto alla reclusione, ha convertito il reato da fattispecie contravvenzionale a delittuosa, richiedendo pertanto, quale elemento soggettivo, il dolo. Verrebbe allora da chiedersi come possa configurarsi sia l’elemento oggettivo della violazione del limite del subappalto, sia quello soggettivo del dolo, in presenza di un obbligo normativo di disapplicazione della disciplina interna per riconosciuto contrasto col diritto comunitario.
È possibile distinguere almeno due macro-ipotesi: i subappalti che scaturiscono da contratti aggiudicati a seguito di procedure bandite o avviate prima della sentenza C-63 del 26 settembre 2019, da un lato, e quelli invece che si ricollegano a procedure bandite successivamente a tale data, dall’altro.
Per i primi, oltre all’applicazione del principio tempus regit-actum, va considerato che il limite del subappalto previsto nella lex specialis ha oggettivamente influito sulla modalità di espressione della concorrenza nella procedura di aggiudicazione (si pensi agli operatori economici che non hanno partecipato alla procedura per un deficit dei requisiti, in ragione dei limiti del subappalto qualificatorio). Dunque, anche in un’ottica sostanzialistica di tutela ex post della concorrenza, non pare possibile disapplicare la quota del 30 o 40% in sede di autorizzazione al subappalto, e ciò neppure in relazione all’intervenuta sentenza della Corte di Giustizia.
Diverso è invece lo scenario per le nuove procedure da avviare dopo la pronuncia dei giudici di Lussemburgo, dove si possono delineare i due possibili orientamenti: quello formalistico-nazionale e quello sostanzialistico-comunitario. La prima posizione, più cauta nella difesa del limite interno del subappalto, potrebbe giustificarsi sia in relazione all’opportunità di attendere le misure normative che il nostro legislatore dovrà necessariamente adottare a seguito della decisione della Corte di Giustizia, sia in considerazione dei già accennati profili penalistici che circondano i subappalti non autorizzati e non autorizzabili in quanto eccedenti i limiti normativi.
Il rischio insito nell’adesione a tale orientamento restrittivo è quello, ovvio, di una possibile pronuncia demolitoria del giudice amministrativo che ritenga al contrario di preferire l’impostazione eurounitaria, soprattutto nel caso in cui il mantenimento del limite del 40% del subappalto comporti l’impossibilità di partecipazione alla gara di un operatore economico, il quale possa in ipotesi qualificarsi nella gara solo facendo ricorso al subappalto “qualificante” (con l’onere peraltro di impugnare tempestivamente il bando di gara, atteso il carattere immediatamente lesivo del limite nazionale).
Si rammenta che il Consiglio di Stato, nel parere della Comm. spec. n. 782/2017, pur non ignorando la giurisprudenza comunitaria, aveva difeso i limiti nazionali, osservando come “il Governo ben potrebbe scegliere “l’opzione zero” ossia di non intervenire sulla scelta di fondo già operata dal Codice, difendendo la scelta italiana in sede di eventuale procedura di infrazione (ove essa venisse avviata dalla Commissione europea, a seguito della denuncia formalizzata da ANCE), e se del caso modificando in un secondo momento la norma de quo, a seguito di una eventuale condanna in sede comunitaria”.
La posizione aderente all’impostazione eurounitaria, se ha il pregio di configurarsi come l’opzione giuridicamente più corretta, si espone al rischio di ammettere il subappalto senza limitazioni in un contesto culturale e giuridico nazionale, non ancora pronto – nelle more di un adeguamento normativo – a metabolizzare un’impostazione così radicale, specie in alcune realtà del territorio dove i fenomeni di infiltrazione criminosa appaiono ancora più preoccupanti.
Ora, alla luce della sentenza C-63/18 il legislatore dovrà necessariamente adeguare la disciplina del Codice, e quella transitoria del decreto sblocca cantieri, alla decisione della Corte. L’auspicio è che l’intervento sia tempestivo e ben congegnato, mentre è altrettanto auspicabile un segnale da parte dell’ANAC, che possa indicare la preferenza verso una delle due opzioni ai RUP e dirigenti in una fase di particolare incertezza e inquietudine aperta dalla pronuncia della Corte di Giustizia.
In questo numero il Focus è dedicato al quadro normativo in materia di appalti delineato dalla legge di conversione del decreto sblocca cantieri, e ai delicati rapporti tra l’emanando nuovo Regolamento attuativo e i provvedimenti già adottati dall’ANAC e dal MIT (linee guida e decreti ministeriali), grazie all’approfondito studio di Aldo Iannotti della Valle. Altri interessanti contributi sono quelli di Maurizio Lucca sull’affidamento del servizio di custodia mezzi sottoposti a sequestro amministrativo, di Beatrice Armeli sulla capacità tecnica e professionale della società di ingegneria, di Mauro Oscurato sull’iscrizione delle riserve ed accordi bonari in materia di esecuzione di opere o lavori pubblici, dopo il d.m. 49/2018 e legge n. 55/2019, e di Giacomo Zerega sul MePI per i servizi scolastici.
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