Il “Daspo a vita” per i corrotti è legge

Legge 9 gennaio 2019, n. 3 recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza e movimenti politici”

4 Febbraio 2019
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Legge 9 gennaio 2019, n. 3 recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza e movimenti politici”

Autori: Dario Capotorto e Irene Picardi

Dopo la legge c.d. Severino del 2012 (l. n. 190/2012) e la successiva legge c.d. Grasso del 2015 (l. 69/2015), il legislatore torna a mettere mano al sistema dei delitti di corruzione, introducendo nuove misure di prevenzione e contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione.

Presentato alla Camera il 24 settembre dello scorso anno dal Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, il d.d.l. anticorruzione, anche noto come provvedimento “Spazzacorrotti”, è stato approvato in via definitiva, dopo il via libera del Senato, il 18 dicembre 2018 e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 13 del 16 gennaio 2019 come l. 9 gennaio 2019, n. 3 recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza e movimenti politici”.

In estrema sintesi, il provvedimento interviene su tre fronti:

– modificando numerose disposizioni del diritto penale sostanziale e processuale, connesse a vario titolo all’azione di contrasto del fenomeno corruttivo;

riformando l’istituto della prescrizione del reato, il cui corso rimarrà sospeso dalla pronuncia di primo grado fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio;

– introducendo nuove norme in materia di trasparenza e controllo dei partiti e movimenti politici.

Fra le novità più discusse vi sono certamente le modifiche apportate alla disciplina delle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, da comminare in caso di condanna per reati contro la pubblica amministrazione medesima, le quali per la loro portata afflittiva appaiono poco coerenti con il sistema sanzionatorio e con i principi costituzionali dettati in materia penale.

Le prime innovazioni riguardano l’art. 317 bis c.p.[1], il cui ambito di applicazione viene notevolmente ampliato, in primo luogo attraverso il riferimento al divieto di concludere contratti con la pubblica amministrazione, originariamente previsto solo dalla norma di parte generale di cui all’art. 32 quater c.p., che si va ad aggiungere a quello dell’interdizione dai pubblici uffici già contenuto nella disposizione di parte speciale; in secondo luogo, attraverso l’integrazione del catalogo dei delitti per i quali scatta l’applicazione delle sanzioni accessorie in esame.

Una prima modifica in tal senso dell’art. 317 bis c.p. si era avuta già con la legge Severino del 2012, che aveva aggiunto ai reati di cui agli artt. 314 c.p. (peculato) e 317 c.p. (concussione, nella formulazione ante 2012), presi in considerazione nella prima versione della norma, anche gli artt. 319 c.p. (corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio) e 319 ter c.p. (corruzione in atti giudiziari). A seguito dei recenti interventi, la norma sulle pene accessorie ricomprende oggi anche gli artt. 318 (corruzione per l’esercizio della funzione), 319 bis (ipotesi aggravate della corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio), 319 quater, comma 1 (induzione indebita a dare o promettere utilità), 320 (corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio), 321 (corruzione attiva), 322 (istigazione alla corruzione), 322 bis (peculato, concussione, induzione indebita a dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli Organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri), 346 bis (traffico di influenze illecite) c.p.

Correlativamente, viene modificata anche l’elencazione dei reati contenuta nell’art. 32 quater c.p.[2] per allinearla alla nuova formulazione dell’art. 317 bis c.p.

La legge “Spazzacorrotti” interviene anche sulla durata delle pene accessorie, che possono essere perpetue o temporanee, qualora venga inflitta la reclusione per un tempo non superiore a due anni (o ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis, comma 1 c.p.). In questo secondo caso, la durata della sanzione accessoria non potrà comunque essere inferiore a cinque anni né superiore a sette.
In precedenza, il limite edittale per poter applicare la disciplina più favorevole era invece di tre anni; per la relativa commisurazione trovava applicazione il principio dell’equivalenza temporale fra pena principale e accessoria, che, almeno per il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, non poteva avere durata superiore a cinque anni ex art. 32 ter c.p.

E’ pertanto evidente la maggiore severità del trattamento sanzionatorio oggi previsto dall’art. 317 bis c.p., soprattutto se si considera che alle modifiche apportate a tale norma è corrisposto un innalzamento dei limiti edittali per alcuni reati contro la pubblica amministrazione, oltre a quello già introdotto con le riforme precedenti, che rende difficile la possibilità di fruire della pena accessoria più mite.

Ciò pone problemi di compatibilità con la funzione di prevenzione speciale e generale delle sanzioni in esame, originariamente ritenute inidonee a perseguire gli scopi afflittivi della repressione e che in base alla nuova disciplina sono invece destinate a limitare in modo più rigoroso diritti costituzionalmente garantiti, quali la libera iniziativa economica e il diritto al lavoro.
Aumentano infatti le ipotesi in cui le misure accessorie finiscono per produrre effetti paralizzanti per un arco temporale indefinito, sollevando così dubbi di legittimità costituzionale della norma soprattutto dal punto di vista della proporzionalità e della finalità rieducativa della pena.

Sempre in un’ottica di stabilizzazione delle sanzioni di cui all’art. 317 bis c.p., la l. n. 3 del 2019 interviene anche sulla sospensione condizionale delle pena riconoscendo al giudice il potere di disporre, in deroga a quanto già previsto dall’art. 166 c.p., che la sospensione non estenda i suoi effetti alle pene accessorie dell’interdizione dai pubblici uffici e dell’incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, nel caso di condanna per i reati previsti dagli artt. 314, primo comma, 317, 318, 319, 319 bis, 319 ter, 319-quater, primo comma, 320, 321, 322, 322 bis e 346 bis c.p.[3]

Viene affidata alla discrezionalità del giudice anche la possibilità di applicare, in caso di patteggiamento per taluno dei delitti sopra elencati, le pene accessorie interdittive a condizione che la pena principale non superi i due anni di reclusione soli o congiunti alla pena pecuniaria.[4] Si tratta di una modifica alquanto significativa, se si tiene conto che prima della riforma l’art. 445, comma 1 c.p.p. prevedeva, in via generale, un trattamento premiale per il reo escludendo anche l’applicazione delle pene accessorie.

Inoltre, si stabilisce, modificando il precedente art. 444 c.p.p., che la parte, nel formulare la richiesta di patteggiamento, possa subordinarne l’efficacia all’esenzione dalle pene accessorie o all’estensione anche ad esse degli effetti di cui all’art. 166 c.p. Se il giudice ritiene però di applicare le prime o di non poter concedere la sospensione condizionale rigetta la richiesta.[5]

Di particolare rilievo sono, infine, le modifiche apportate alla riabilitazione ex art. 179 c.p. che non potrà più produrre effetti estintivi sulle pene accessorie se comminate in perpetuo, con conseguente depotenziamento della funzione premiale dell’istituto.
Esse potranno essere dichiarate estinte solo se decorsi sette anni, a fronte dei dodici previsti nella versione originaria del disegno di legge, e a condizione che il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta.[6]

Manca invece del tutto un coordinamento tra l’introduzione della misura dell’incapacità perpetua di contrattare con la pubblica amministrazione (introdotta solo per le persone fisiche e non anche per le persone giuridiche) e le previsioni nazionali ed europee che prevedono il diritto di partecipare alle procedure di evidenza pubblica delle aziende che abbiano posto in essere misure di self clearing.

Il mancato coordinamento pone l’interprete di fronte a un bivio.

Da un lato, ove si ritenesse che la sanzione dell’incapacità perpetua disposta nei confronti di una persona fisica non le impedisca di assumere funzioni apicali in un’azienda che ha rapporti contrattuali con pubbliche amministrazioni, emergerebbe la natura del tutto marginale delle implicazioni pratiche connesse all’adozione della sanzione accessoria (atteso che i contratti di appalto vengono conclusi nella stragrande maggioranza di casi da aziende e non da persone fisiche e finanche i contratti di consulenza possono essere conclusi per il tramite di schermi societari con soci professionisti).

Dall’altro lato, ove si ritenesse viceversa che la persona colpita da “daspo a vita” non possa essere utilmente integrata all’interno di un’azienda che ha rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione, emergerebbero seri dubbi di compatibilità della normativa domestica con le direttive europee in materia di appalti, che, al contrario, riconoscono in modo diretto e incondizionato il diritto degli operatori economici di essere ammessi alle procedure di evidenza pubblica, ove abbiano adottato misure di “self cleaning” ritenute idonee dalle stazioni appaltanti chiamate a valutarle.

In conclusione, l’introduzione del divieto perpetuo di contrattare con la pubblica amministrazioni rischia di essere inefficace o comunque destinato a essere disapplicato per contrasto con principi contenuti in fonti sovraordinate.

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[1] La norma è modificata dall’art. 1, lett. m) della l. n. 3/2019.

[2] La modifica è contenuta nell’art. 1, lett. c).

[3] Art. 1, comma 1, lett. h).

[4] Art. 1, comma 2 lett. e).

[5] Art. 1, comma 2 lett. d).

[6] Art. 1, comma 1, lett. i).

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